(dalla mailing list "fabrizio", a partire dal 26 maggio 2000)
autore: RICCARDO VENTURI titolo originale: DOLCELUNA
Sperando d'incontrare qualcuna come lei, si mosse dalla
sua casa davant'alla Fortezza per andare al Porto. Vestito d'una maglietta bianca e d'un paio di vecchi pantaloni, non è dato sapere di quale vino fosse ubriaco; e non è dato, forse, neanche sapere chi fosse, anche
se io lo conoscevo abbastanza bene per quanto conoscer si possa un'ombra.
20 luglio 1969, televisioni che gracchiano da ogni finestra.
Ruggero Orlando e Tito Stagno, triste sera.
Eppure, la Luna è lassù.
Non si
vede niente, dalla Piazza.
È lassù, e ben altri sono i fili dell'ignoto.
Da un altro porto, ma non da un altro mare, qualcuno lo vide camminare
e s'immaginò un vecchio marinaio. "It is an ancyent marinere,
and he
stoppeth one of the three"...? Che non avesse un posto dove andare,
questo lo si sapeva; a parte una casa in via Pelletier, una stradaccia
piena di vento, e un'osteria.
E che gliene importava se la
terra non lo aspettava sotto i piedi?
Sognava sempre di ballare!
Di mogli ne aveva avute addirittura due; alte, snelle. Ma per lui non esistevano più, che avessero pure un altro uomo e un altra donna.
Adius!
E
mentre, dall'altro porto, il Poeta gli mandava a dire che era un uomo da buttare tendendogli una canna da pesca con incoccata un'esca dalle lunghe gambe (ah, Dylan! Storie di ubriachi, anche se preferivi
quell'orrida cervogia!), lui passava davanti alla Statua di Piazza Garibaldi frugandosi nelle tasche. C'era solo un po' di polvere di mare.
Sabbia d'una spiaggia popolare. I Tre Ponti o il Calambrone, più
lontano c'era la curva dove Vittorio Gassmann e Jean Louis Trintignant s'eran volati di sotto dopo l'ultimo Sorpasso.
"Qui Pasadena..."
Ma quale Pasadena. C'era solo la Luna.
They came in
peace for all mankind.
Lui camminava. Non poté testimoniare.
E non gliene sarebbe fregato poi molto.
All'altezza di Via Borra passò davanti al Monte di Pietà, e la Luna si specchiava nel Fosso, davanti alle vecchie
carceri.
Anarchico e comunista, diceva di cantare per non ammazzare.
Per ore ed ore poteva parlarti di tutte le sue guerre mondiali, e il Poeta dell'altro porto lo sapeva.
Ogni giorno, una guerra mondiale; lui,
come si sa, comandava un Sottomarino e glielo faceva vedere chi era lui!
Un foglio del "Telegrafo" di due mesi prima; due patate lesse e una scatoletta di tonno. Un bicchiere, due bicchieri, una bottiglia si
rimedia sempre. Basta chiedere!
In questi posti davanti al mare, un po' di vino lo trovi dovunque.
E ripensava sempre alle lunghe gambe. Facevano l'amore?
E chi lo può testimoniare?
E intanto la notte
passava.
Una notte sveglia.
Ma erano tutti quanti svegli. Solo per quella notte, però.
Lui, sempre.
Barcollando arrivò al Varco Galvani.
Triste, triste; lampare e luci.
Vino e cazzotti.
Erano scene viste da
sempre, quando arrivano i carghi da chissà dove.
Li fanno stare magari per giorni alla fonda, e quegli uomini s'accumulano l'adrenalina melassata, salsa dell'andar per mare. E sbarcano, sbarcano continuamente per
chissà che cosa; gli svantaggiati. E il marinaio indiano barcollava con una specie di coltello nella schiena, in quella notte dove la Stella Polare aveva ceduto il passo all'astro calpestato, bucato da una bandiera, violato
dalla voce umana. Il timoniere di Shangay non lo sapeva che questo è pure il nome d'un quartiere di questa città, e gli anelli brillavano, brillavano. Lampare e luci.
Lì per lì non se ne rese conto, e non era il primo
che vedeva morire.
E non poté testimoniare.
Qui Pasadena, qui Apollo, qui...
La mattina, o forse nella notte stessa, i Carabinieri lo avrebbero trovato. Meglio scappare via.
Meglio ballare, perché, poi, il Maestro
ci fa su una bella canzone, chissà. Come la chiamerà? La Tango-Notte? E il Poeta dell'Altro Porto gli dovrà spiegare della paralisi, di luci del mare capovolto, d'una balena che lo aspetta al largo come il Colombre di
Buzzati? E la Balena sono due donne alte, snelle, amore, amore, amore! Con chi ci vuoi dimenticare? Come fai a dire che non puoi testimoniare? Bevi, bevi, Piero Litaliano! Hai passato la vita a bere e a sognar di bere!
Qui
Pasadena, qui Apollo, qui...
Fu così che il Poeta dell'altro Porto volle dargli una mano. Un minuto, ed era da lui.
Le quattro e ventisette del ventuno luglio millenovecentosessantanove.
A quei due non importava
niente di non riuscire a nuotare, e la voglia di mare ce l'avevano su tutte le guance del mondo, destre, sinistre, sinistre, destre, destre, sinistre...
Si trattava di dare dei nomi a quel che era successo.
Uno parlò
d'una città, d'una statua, d'un porto delle illusioni, d'una chimera.
L'altro, che aveva visto ogni cosa, parlò d'una Dolce Luna. Una storia, dicono, assai strampalata.
Si misero persino, e per
gioco, a parlare in una lingua sconosciuta, che forse intendevano solo loro.
Ne spraken dünne fragen küer, ne skoargen dünne flachert, ne skoargen
dünne bünne skräer, en dünne ne spraken gulakt. En argen bucht, en hiregus
skwäer, ne spraken dünne flachert, ne spraken dier, ne spraken
küer, ne spraken dünnen dachchrt.
Né parlar tanto e chiedere un capriccio, né qualcosa fa vacillar tanto; né allestire una scena tanto scarna, e neanche
parlare preziosamente.
E una grande baia....né parlar tanto fa vacillare, né parlarti, né dir capricci, né parlar tanto... [...??...]
Ora, forse, capisco meglio.
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autore: FRANCO SENIA
Per chiedermi un capriccio, ti prego, non usare
eccessi di parole che le gambe fanno
vacillare.
Inutile e dannoso usare gioielli e oro zecchino
per fabbricare soltanto un povero sgabuzzino.
Ci vorrebbe una baia, un golfo, grande come il mare
dove gettare tutte le parole e lasciarcele
affogare.
Smettere di parlare smettere di vacillare
Dei miei capricci ho parlato tanto e non lo so più fare.
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inviato
l'11.11.2000 autore: RICCARDO VENTURI
titolo originale: ULTIMA STROFA DI "DOLCE LUNA"
note: L'ultima strofa di "Dolce Luna" non è né in svedese, né in polacco, né in norvegese, né in
un'altra lingua a me nota.
Riprendo comunque una mia vecchia mail al riguardo sulla maling list
"Fabrizio":
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L'ultima strofa di "Dolce Luna" è una delle "vexatæ quæstiones"
deandreiane più annose; di solito, a
quanto mi risulta, viene chiamata la "strofa in tedesco", ed in effetti certi fonemi, l'andamento fonetico generale ed anche alcune parole ricordano abbastanza da vicino questa lingua. Come tutti sanno, Fabrizio è
ricorso un'altra volta ad un "simil-tedesco" nella famosa strofa del "pinzimonien" di "Ottocento"; ma lì si tratta veramente di tedesco maccheronico chiaramente identificabile ed
interpretabile.
L'ultima strofa di "Dolce Luna", invece, rimane una specie di mistero.
In che lingua è? Si tratta di parole inventate di sana pianta, oppure interpretabili col tedesco e/o altre lingue
esistenti? La strofa potrebbe avere un significato ben preciso?
Domande difficili, ma forze meno impossibili di quel che sembra. Azzardo
qui qualche ipotesi, avvertendo che quel che dico è esclusivamente frutto del mio
ascolto e, magari, anche della segreta voglia di recuperare qualche parola in più di Fabrizio.
La prima cosa che ho fatto è una trascrizione fonetica del brano, che riporto qui sotto sia una trascrizione fonetica
semplificata.
[NB: Alla mail originale era allegato un file .bmp contenente invece la trascrizione nell'Alfabeto Fonetico Internazionale].
Negli esempi durante la trattazione delle ipotesi uso invece una sorta di
"trascrizione grafemica" basata, in mancanza di meglio, sul tedesco letterario e sull'olandese.
È stata condotta ad orecchio e, quindi, avverto che le mie sensazioni uditive potrebbero essere differenti da
quelle di altre persone. Ho ovviamente un orecchio piuttosto "allenato" a queste cose, ma questo non significa necessariamente che le mie impressioni, percepite da una registrazione, siano rigorosamente
esatte.
/ne'spRa:k'n dyn':fRag'n kø:'r
ne'sköarg'n 'dyn:' 'flaçert
ne'sköarg'n
'byn:' 'dyn': 'skra'ar
e:n 'dyn:' ne'spRa:k'n
'gulakt
e:n 'arg'n buxt
e:n 'hireYø:s
'skwa'ar
ne'spRa:k'n 'dyn:'
'flaçert
ne'spRa:k'n dï:'r
ne'spRa:k'n
kø:'r
ne'spRa:k'n 'dyn'n 'dax:Rt /
Cercherò adesso di azzardare qualche ipotesi.
Innanzitutto, come detto,
la "lingua" ha delle decise assonanze col tedesco. Parole tedesche pienamente plausibili potrebbero essere le seguenti:
- dünne "sottili, esili, magre; scarse, poche"
- fragen "chiedere,
domandare"
- Bühne "scena, scenario"
- argen "forti, gravi; (dial.) "molto, tanto; grande"
- Bucht "baia, insenatura"
- dir "a te, ti"
Partendo da questa
specie di "base" ed ipotizzando che la "lingua" abbia
qualcosa a che fare col tedesco, mi sono accorto di due cose di differente natura, ma ugualmente importanti:
a) Che la strofa presenta una
struttura lessicale regolare, con ripetizione di parole ed intere espressioni che potrebbero far pensare ad un "significato";
b) Che è totalmente assente una delle caratteristiche fonetiche storiche
che
identificano il tedesco letterario, ovvero la cosiddetta "seconda mutazione consonantica".
Quest'ultima cosa mi ha fatto pensare ad un dialetto basso-tedesco.
I dialetti basso-tedeschi (che, malgrado il
nome, sono parlati nella Germania settentrionale; la denominazione riprende quella originale, "Plattdeutsch", nel senso che il territorio di tali dialetti è in generale pianeggiante) hanno una tradizione letteraria
molto importante; nel medioevo il basso tedesco letterario era, ad esempio, la lingua ufficiale della Lega Anseatica; uno dei loro caratteri distintivi rispetto al tedesco letterario e ai dialetti alto-tedeschi è l'assenza
della "seconda mutazione consonantica" (per cui, ad esempio, si ha la contrapposizione [ ik / ich ] "io", [spreken / sprechen ] "parlare", [ to / zu ] "a" (preposizione) ecc.
I
dialetti basso-tedeschi sono molto simili alla lingua olandese (di per se stessa, storicamente, un dialetto basso-tedesco assurto a dignità di lingua nazionale).
Questo permetterebbe di "interpretare"
altre parole, sia mediante il "Plattdeutsch" che mediante l'olandese:
- spraken "parlare, dire" [ted. lett.: sprechen]
- flakkeren "guizzare; far vacillare"
- skorgen
"allestire, approntare, fare"
- schraal "magro, scarno"
- guldacht "prezioso, degno d'esser paragonato all'oro"
- nê (dial.) "né"
- kuur "capriccio,
ghiribizzo"
Ammettendo (e non concedendo) l'esattezza di tale ipotesi, si potrebbe azzardare già qualcosa:
"Né parlare tanto (e) chiedere un capriccio,
Né [..?..] tanto fa vacillare;
Né
allestire una scena tanto scarna
E neanche parlare preziosamente.
E una grande baia,
E [....... ??........]
Né parlare tanto fa vacillare,
Né parlarti,
Né dir capricci,
Né parlar tanto
[....??....]"
Tutto questo ha un senso? Forse no, anche se cercare il senso di "Dolce
Luna" potrebbe autorizzare le "agudezas" più vertiginose. Ma non so se qualcuno ci aveva mai tentato
prima, e quindi questa cosa sia presa, appunto, per quella che è.
Magari il buon Walter Pi sapeva già tutto ed ha taciuto, il testo è in hindi del nord o in antico gallese, si tratta di una preghiera a Santa Cunegonda e,
indi per cui, ho sparato una gran massa di boiate stile "Misamour"; magari Fabrizio de André si è inventato ogni cosa e quindi il risultato è esattamente lo stesso. Chiedo quindi perdono qualora vi avessi annoiato con
queste elucubrazioni, e W Fabrizio de André.