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In questa lunga pagina troverete:

Contributo di Giovanni Bezzecchi (ROM) per la rivista "A"

Un racconto ispirato a Dolcenera

Le nuvole barocche di Fabrizio De André di Claudio Scarpa

DAGLI ASINI DI FRANCIS JAMMES AI SUICIDI: LA TRADUZIONE DI FABRIZIO DE ANDRÉ

 

>>>> Contributo di Giovanni Bezzecchi (ROM) per la rivista "A"

Fabrizio i leskero ovi rom
ot Giorgio Bezzecchi

P rengjargjum Fabrizio po jek dive silalo i suslo, sar vajk andu Milano, angle ot Camera del Lavoro, po stighe kaj pe gjal andre.

Hine urado kun roba ot sena, jek roba kali i retikani, i civlepe sukar vasu keri slike, vasu "Anime salve". hari ala i hari tempo,phenu ke lako keru,po romane "khorakhane". Gjav nasat po ufficio kun gagjo so keri manza buti, Maurizio Pagani, kaj alo manza i pheni manghe ke hilo sukar kaj ov vakeri vasu roma.

 Andu ufficio citinu lil so pisini po romane, i vale sunu giso, suno buth ricja, tinanupe. Posle savo dive jku pal Fabrizio andu leskero studjo, sukar vakeri manza, lacjo gagjo, vakeri sukar vasu roma, prengjari romen, vakeri vasu roma sar jek cjacjo rom, sar na sungjum vakeri vasu roma nindar ot kada keru buti sar Esperto di Etnie Nomadi. Gjav avri i sunupe sar ti vakergjum kun jek baro rom, ke na sungjum nindar, ma so phurane manghe da tiknoro vekerne.

Fabrizio hine prjatli ot roma i ot kon hine pase lende ot dugo.kame mislini kaj po svecer po presentazjone ot "Anime salve", Fabrizio kangja mande i Maurizio Pagani po hal svecer kaj hine buth importanti gene. Meni i Maurizio, sakon po rici so murinle keri vasu "Khorakhane" , besame po jek rik i misliname samo vasu hal i pii, gage po mende jkene buth, Fabrizio i Dori prastene vajk gi mende, ame hame i na jkame po gage. Fabrizio hine gjoke, skivo, mislinave meni, saj su dova leske injeme milo,na pe kerame phare. Hine jek rici ke kerame samo me i Fabrizio, persu Maurizio, kada pe alacjame vasu keri po romane "Khorakhane",pjame lace.

  I onda na ascjovave leske palan........

Fabrizio e il suo essere rom

============== traduzione in italiano ==================

Ho conosciuto Fabrizio in una giornata fredda e umida, come è frequente a Milano,di fronte alla Camera del lavoro,sulla gradinata d'ingresso.

Era vestito con abiti di scena, un vestito scuro e formale, intento ad assumere posture adatte per la produzione di fotografie, probabilmente, per "Anime Salve". Poco tempo e poche parole, confermo la mia disponibilità per l'incarico proposto, tradurrò in romani chib la sua canzone,"Khorakhane". Rientro in ufficio con il mio collega, Maurizio Pagani, che mi ha accompagnato e ha partecipato all'incontro con Fabrizio, che mi evidenzia l'importanza dell'attenzione dimostrata per il popolo stigmatizzato, i rom, da parte di Fabrizio.

In ufficio leggo il testo da tradurre e subito "sento"uscire dal testo una forza e una rabbia particolare, un'attenzione nelle parole unica, sofferenza e apartheid aleggiano nell'aria, sensazioni e pulsioni mi fanno rabbrividire. Dopo pochi giorni rivedo Fabrizio nel suo studio, ha nei miei confronti un attenzione particolare, mi "vizia"e parla dei rom con cognizione di causa, conosce in modo approfondito i rom, mi accorgo di avere di fronte un pozzo di cultura e mi sento trascinare in una discussione sui rom ad un livello da me mai percepito nella mia lunga attività professionale di Esperto di etnie nomadi. Esco dall'incontro con la sensazione di aver discusso con un baro rom, un saggio, che non ho mai avuto il piacere di incontrare, di cui gli anziani rom mi parlavano da bambino.

Fabrizio era un amico dei Rom, ma anche di chi stava da molto tempo vicino a loro.Voglio ricordare che la sera della presentazione a Milano di "Anime salve", Fabrizio invitò me e Maurizio Pagani ad una cena a cui erano presenti molte personalità del mondo della cultura e della musica. Io e Maurizio, che avevamo seguito ognuno per la propria parte l'incarico che Fabrizio mi diede per la traduzione di "Khorakhanè", sedevamo in disparte dedicandoci in verità più al cibo e alle bevande depositate sulla tavola che agli sguardi furtivi che scivolavano da un tavolo all'altro. Fabrizio e così anche Dori, più di una volta si sedettero a conversare con noi al nostro tavolo e così, ben presto, ci trovammo, nostro malgrado, al centro dell'attenzione generale, senza per questo tralasciare l'impegno verso gli squisiti piatti che seguitavano ad essere depositati davanti a noi.

Fabrizio era così, schivo per natura o almeno così appariva a me e forse per questo si era in un qualche modo avvicinato a noi due che non cercavamo d'imporre la nostra presenza un po', come allora, capitava a tutti i rom. C'era una cosa che tuttavia accomunava solo me e Fabrizio e non Maurizio, nei lunghi incontri e nelle chiacchierate che precedevano o seguivano le richieste di traduzione di Khorakhanè o di conoscenza del "mio" mondo ovvero, le dolci bevute.

E a quel tempo nemmeno io rimanevo indietro… 
(traduzione dal romanès di Giorgio Bezzecchi)

Fabrizio era così, schivo per natura
o almeno così appariva a me

>>>> Racconto ispirato a Dolcenera

Genova, 8 Ottobre 1970 di  Filip (http://filste.wordpress.com/2008/12/19/genova70/)

Genova, 8 Ottobre 1970

Ponte di S. Agata sul Bisagno.

Ponte di S. Agata sul Bisagno dopo l'alluvione

Liberamente ispirato a: Dolcenera (F. De André)

Dio come manchi… ma quanto ci metti? Quando arrivi? Impazzisco in questa stanza, mi sento un leone in gabbia – ma quale leone, solo un agnello! Sposto oggetti, tocco fogli, guardo le ore. Fuori piove, dalla finestra la luce entra sempre più scura. E’ fitta quest’acqua, cade e cade da mattina presto, ancora non si ferma, ancora la guardo e più la fisso più sembra rabbiosa, forte, incessante. Mannaggia, penso al traffico a rilento che avrà causato, penso a te che infreddolita probabilmente mi stai raggiungendo, ma coi mezzi è sempre lunga, figuriamoci quando piove. Ti sarei venuto a prendere da qualche parte, a metà strada per lo meno, ma tu no, non vuoi, non cedi mai. Anselmo, ti fa paura. Anselmo, che ti ama così tanto, così forte. Anselmo che può, che ne ha diritto, così bene e così onestamente che lo invidio, lo odio, lo compatisco.
Non mi piace pensarti quando non ci sei, per questo odio i tuoi ritardi. Lo sai questo, ma non capisci perché. Non capisci che non sei tu, ma tuo marito… Io non sono così, io non rubo, io non mento, io non faccio male a nessuno. Perché con lui sì? Non lo conosco, non ne ho bisogno, non voglio. Io non sono così, no, non sono come sono. Lui è il mio senso di colpa più grande, è la mia insonnia della sera tardi, è il cerchio alla testa la mattina presto, è quel riflesso nello specchio dal quale distolgo sempre gli occhi imbarazzato. Imbarazzato del mio riflesso, dei miei occhi!  Perché è il riflesso di un amante codardo, perché sono gli occhi di un bugiardo, un ipocrita che ogni giorno – ogni giorno! – dice “Ora basta, oggi la finiamo!”. Poi ti vedo, col tuo cappotto stretto e col tuo profumo: è la fine, non di noi due, ma della mia fermezza.  E’ inutile, sono debole, sono innamorato. Lo sai anche tu, l’amore ha l’amore come solo argomento, non riesco a fermarlo, non voglio farlo.
Vigliacco.
Mi sdraio vestito, con le scarpe, chiudo gli occhi. Ancora non ci sei, e il tempo corre trascinato dai miei pensieri, spinto dalle paure, tirato dai dubbi. Ancora quest’acqua, troppa! Sentila! Tap-tap-tap-tap-tap-tap-tap… picchia sottile, picchia terribile, non sente ragioni. Siamo lei e io, nient’altro. Dio, quasi ci spero che ti abbia sostituito per oggi, che la forza selvaggia di questa natura sia forte abbastanza per fermarci, senz’altro più forte di me. La natura è donna, c’hai mai fatto caso? Fermati, Amore, torna indietro, torna da chi ti aspetta, da chi ti prenderà i vestiti fradici e muoverà le dita tra le ciocche bagnate dei tuoi bei capelli. “Pazza,” – dirà – “dove pensavi di andare con quest’acqua?!”. Inventa qualcosa, una scusa, qualsiasi… tanto gli basterà averti lì, sarà soddisfatto. Sì, torna, vattene. Lasciami. Non ti servo a niente.
Intanto sento i tuoi passi, sono sulle scale e salgono. Si aggiungono al ticchettio della pioggia come il crescere della musica in un bolero. Sei arrivata, ce l’hai fatta. Il cuore mi batte come quello di un ragazzino mentre mi alzo. Entri col fiatone, il batticuore, chiudi la porta e mi salti al collo. “Scusami se arrivo ora! C’è l’inferno lì fuori!”. Sei fradicia, e stai perfino a chiedermi scusa! “Sei pazza?! Scusa di che?”, ti stringi addosso come una gatta infreddolita. Come devo fare, cosa ti posso dare se non tutto l’amore che sento dentro?

Ora siamo solo noi due. Chiusi dalla pioggia, lontani dal mondo che non bada, sommerso sotto quest’acqua: belìn, troppa ce ne vorrebbe ancora per lavare via tutta la sporcizia che ci circonda. Niente ha più importanza mentre ti prendo. Ti amo, ti amo con tutta la forza di cui sono capace. Più di ogni valore, più di ogni ragionamento mai intrapreso, mai fatto. Nemmeno Anselmo conta più, la sua ombra è uscita dalla porta che hai aperto entrando, nel momento esatto. Vi siete incrociati, tu non l’hai visto ma io sì. Ti prendo con tutta la forza di cui sono capace, che non mi basta mai. E’ troppa la vita che ci vorremmo scambiare, troppa la pelle tua che vorrei coprire di me. Intanto un rombo sordo, basso, cupo. Il mondo ruota, si capovolge, inclina, gira. Come un terremoto, trema con noi. La montagna sembra scricchiolare, cedere. Niente ci può fermare, niente! So cos’è, so chi ci chiama: è il Bisagno che si è svegliato, giudice di destino, torrente di fango che come noi, intrappolato da una città troppo stretta, decide di prendersi la sua rivincita, di scappare, di cercare il mare e la libertà. Scende, scende veloce e incurante della vita altrui. Come noi. Scende e afferra tutto, tonnara di passanti e di automobili, e più scende più sembra salire. Come noi. Prende, copre, avvolge ogni rumore, ogni dolore, ogni cosa; come noi. Sì, è come noi: inarrestabile. Siamo fatti della stessa sostanza, anime troppo grandi per essere fermate. Ci chiama, ci invita, ci cerca per indicarci la strada. Vuole me, lo so: mi vuole portare via per sempre, salvarmi, perché da solo non sono in grado. Ora però non posso, ora ho da fare, il tumulto del cielo ha decisamente sbagliato momento. Non ci fare caso, Amore mio, non ci badare: siamo sempre qui, ancora qui.

Siamo qui, e tutto passa. Anche l’acqua, senti? Si sta calmando. Scende la sua rabbia, più non si gonfia. Lascia solo fango, solo macerie alle sue spalle, e sguscia nei vicoli più stretti, in rigagnoli sempre più fini. Cosa resta dopo l’orgasmo di un momento? La vita di prima. Più difficile forse, forse da risistemare… ma sempre la stessa. E allora cos’è stato? L’evasione di un momento? E’ davvero stato così indispensabile? Doveva quel fiume maledetto strabordare? E di noi cosa dici? Era necessario? Inutile tentare di ripescare le ragioni di un momento, non saranno più le stesse. Non saranno così forti. Saranno meno vere, più traballanti, più complicate. Eppure tardi, ogni volta troppo tardi: solo il tempo per pentirsi resta sempre, anzi abbonda.

Vigliacco.

Siamo solo questo: due vigliacchi. Tolta la maschera, non abbiamo pudore. Dove sei adesso, dove?! Mi sveglio. Un sogno, è stato tutto un sogno, o forse no… guardo fuori, la pioggia è cessata, ma Dio, tutto quel fango! La strada del pomeriggio non è quella, non è la stessa. Irriconoscibile. Un tappeto di detriti la copre per tutta la lunghezza, da un muro all’altro, incollando mobili, pietre, carcasse di macchine. Gente per strada cammina a fatica, alza gli stivali appesantiti e sposta ciò che intralcia la via. Si chiamano a vicenda, si sollecitano. E tu dove sei? Devi essere tornata a casa prima che succedesse, devi aver capito che era impossibile arrivare, come avevo detto.

Non sarà tuo il cadavere di donna che domattina troveranno sepolto nella melma, a due chilometri da qui. Non sarai tu, ma un’altra, chiunque altra. Io aspetto una tua chiamata, lo so che ti farai viva appena potrai, appena troverai un momento adatto.

Ti aspetterò, come ho sempre fatto… Ti aspetterò.

>>>> Le nuvole barocche di Fabrizio De André

(dedicato ad un amico perduto, Lionello Sed) di Claudio Scarpa

Pensavamo tutti che mai avrebbe potuto lasciarci, come gli eroi, come i suoi personaggi in controluce, come gli antichi alfieri che tornano dalle battaglie feriti ma pur sempre vivi. Il ricordarlo attraverso le sue tristi stesure musicali, attraverso i suoi possibili ed impossibili personaggi ci aiuta a non dimenticarlo. Dietro la sua scomparsa, per fortuna, solo la notizia e qualche servizio, senza quel clamore a tinte forti che ha invece seguito la fine di Lucio Battisti, autore dei popolino semplice e dei facili costumi musicali. De André è stato Artista Vero, completo, ineguagliabile. 
Grossa differenza quindi con l'altro da sempre e per sempre più conclamato ed osannato anche troppo, in troppe occasioni. De André era profondo nei suoi testi, ermetico a volte, ma maledettamente sincero verso sè stesso ed il suo pubblico; Battisti era uno speciale autore di musiche, diventate fortuna grazie ad uno scaltro ed astuto paroliere che ha coperto delle lacune balzate subito a galla quando il sodalizio con Mogol è naufragato miseramente. 
 

Le luci ed i clamori spesi e scialacquati dai giornali, dalla immancabile e patetica Mamma Rai e dai sempre presenti canali politici della 'copertura' Fininvest sono stati prodighi e prolissi nei confronti di Lucio, un vero e proprio avvenimento annunciato e prosciugato fino all'osso, mentre per Fabrizio (anche per quella storica mancanza di professionalità che viene sempre a galla quando questi colossi si dedicano alla musica) è stato molto più una notizia e molto meno un avvenimento da indici di ascolto. Ma De André era questo, uno schivo di natura (non come l'altro, schivo anche per ragioni propriamente professionali e sentimentali: un interprete che dal vivo ha sempre avuto dei problemi insormontabili per una riuscita vocale che non risultasse approssimativa) che raccontava di fatti e persone, di usurpatori e tiranni contro i deboli e gli oppressi, quei personaggi perdenti di natura che riescano a denunciare o addirittura riscattare una intera condizione sociale, Ma chi erano i personaggi in controluce di Fabrizio? Gente che potremmo incontrare per strada ovunque o riferimenti storici letti coi senno di poi.

Così ecco la spassosa satira di Carlo Martello che torna trionfante e vincitore dalla battaglia di Poitier e si accorge che le tariffe delle puttane, durante la sua assenza, sono largamente lievitate. Ne "Ia canzone dell'amore perduto" invece ecco risaltare i momenti opachi e ormai prosciugati di un amore che per troppo tempo ha già vissuto e che non offre più nessun guizzo, nessun sentimento. La triste storia di Marinella, così impossibile da risultar vera o la parabola de Il gorilla" che al di fuori da ogni tabù atavico impressiona la gente perché potrebbe scambiare la donna per la sua simile al femminile. La denuncia della guerra per esempio si affaccia spesso in De André e la si ritrova in molti richiami e in forme diverse, sempre con il comun denominatore dell'ostracismo ai mezzi forti per risolvere le questioni. Ne "La ballata dell'eroe" dove la sua donna in effetti avrebbe preferito un uomo vivo anziché un eroe morto; ne "La guerra di Piero" che muore per il fatto che non ha avuto il coraggio di sparare ad un suo simile ma quello non gli ricambia la cortesia. Alla triste ed esasperata storia di Amore che vieni amore che vai" si contrappone la beffarda eredità de Il testamento" o l'angoscioso sacrificio dei Miché che si suicida in cella per poter finalmente uscirne, la mancanza di coraggio per non voler passare 20 anni in prigione e al quale non si concede né il prete né la messa, perché d'un suicida non hanno pietà. Il sogno dell'amore impensato di "Nell'acqua della chiara fontana", Capolavoro tra i capolavori sicuramente la Preghiera in gennaio" ancora un inno e una denuncia alla società di non perdonare un suicida; si dice che questa canzone Fabrizio la dedicasse all'amico Luigi Tenco e al suo ultimo gesto disperato; chiede perdono Fabrizio per tutti coloro che son morti suicidi e lo invoca quasi perché ... 
Meglio di lui nessuno mai ti potrà indicare gli errori di noi tutti che puoi e vuoi salvare. 
Ascolta la sua voce che ormai canta nel vento, Dio di misericordia vedrai, sarai contento...

E proprio in "Si chiamava Gesù De André racconta il proprio modo di interpretare la venuta di Cristo sulla terra, un uomo venuto da molto lontano a convertire bestie e gente e che morì come tutti si muore, come tutti cambiando colore ... Di Maria dicono fosse il figlio, sulla croce sbiancò come un giglio...

E la condizione delle donne di malaffare è stato anche un altro appiglio per De André di rigirare la lama nella piaga della società come la'graziosa'di "Via dei campo" , una bambina che a. tutti vende la stessa rosa o nella spassosa ed imperdibile "Bocca di rosa" che metteva l'amore sopra ogni cosa il trionfo di sensazioni dei sacro e dei profano. I poveri cristi abitanti de 'Ia città vecchia" nei quartieri dove il sole dei buon Dio non dà i suoi raggi avendo davvero troppi impegni per scaldar la gente d'altri paraggi. 
Nelle rarissime cover di Fabrizio a parte quelle dei Francesi illustri, troviamo invece le storie di "Giovanna D'Arco" e di "Suzanne" di Leonard Cohen o la magnifica ed inarrivabile Via della povertà" di Bob Dylan dove nel pezzo finale un giovanissimo Francesco De Gregori suona l'armonica.

E di questo passo si potrebbe continuare per ore, giorni, anni. Il ricordare Fabrizio attraverso i testi delle sue canzoni sarebbe un gioco davvero infinito; piace ricordarlo anche per la superba Le passanti" dove ognuno di noi può ritrovare le occasioni perdute della propria vita, quelle immagini care per qualche istante, sarete presto una folla distante, scavalcate da un ricordo più vicino...

Si potrebbe continuare così per pagine e pagine, ho voluto soltanto citare pochissime delle tante canzoni immortali che l'artista ci ha lasciato. A noi, poveri mortali, il compito di continuare a far conoscere le sue incredibili lezioni di vita.

Ciao Fabrizio, dormi sepolto in un campo di grano... E come tutte le più belle cose, vivesti solo un giorno, come le rose...

Claudio Scarpa

DAGLI ASINI DI FRANCIS JAMMES AI SUICIDI: LA TRADUZIONE DI FABRIZIO DE ANDRÉ

La Gallimard ha da poco ripubblicato alcune poesie di Francis Jammes (1868-1938), a dimostrazione dell'attualità di un poeta dalla sensibilità contemporanea. La raccolta porta, come titolo, Prière pour aller au paradis avec les ânes, da una poesia data per la prima volta alle stampe nel 1901 e inclusa  originariamente ne Le Deuil des primevères. Quest'ultima è una silloge di quattordici preghiere che il "Cygne d'Orthez", in odore di conversione, rivolge a un Dio roussoiano, che suscita una religiosità più cristiana che cattolica. La fede del poeta spinge Gide, suo amico, a etichettarlo ironicamente, in una lettera, «saint Francis Jammes», con un'esplicita allusione a Francesco d'Assisi.

La conversione si compie nel 1905 e trova massima espressione nell'opera dell'anno successivo, Clairières dans le ciel (1906), a partire dalla quale l'ispirazione religiosa e quella rustica diventano indissociabili. La svolta mistica di Jammes non costituisce del resto un episodio isolato nella temperie culturale della Francia di inizio secolo, ispirata dal "ritorno a Dio" di Claudel.

Nonostante aderisca quindi ad una tendenza generalizzata, Jammes è spesso guardato dalla critica come esempio di anticonformismo. E controcorrente lo è, sia nelle sue scelte formali, che lo portano a riscoprire la melodia dell'alessandrino in un momento in cui impera il verso libero, sia nel proprio percorso tematico.

Il suo ritorno alla fede è semplice, quasi infantile, scevro da cerebrali appesantimenti filosofici o teologici. Jammes sceglie di lodare Dio attraverso uno sguardo attento alla verità delle cose, allontanandosi così dal sensuale esotismo dei suoi contemporanei: un atteggiamento che nel 1897 era già stato definito, sul Mercure de France, «jammisme». E ancora prima della conversione, si rivolge al Creatore con molta naturalezza. Nella Prière pour aller au paradis avec les ânes l'animale domestico, fraterno e sottomesso, diventa simbolo di un'umanità rassegnata ai soprusi del prossimo. Con gli asini prende l'avvio una lunga processione di vinti dalla vita, di dostoevskiani "idioti".

La campagna in primavera è il momento ideale per l'ultimo viaggio e gli asini sono i compagni prescelti per apparire dinanzi al Creatore. Il poeta si pone tra loro, autonominandosi apertamente («Je suis Francis Jammes et je vais au Paradis, […].», v. 8) e scegliendo quindi la compagnia delle bestie che abbassano il capo, le stesse che hanno sopportato enormi fatiche e i colpi inferti dalla mano altrui. Cammina con loro, che la vita ha messo in ridicolo o alla gogna e la cui unica, inoffensiva difesa è costituita dalle lunghe orecchie per «chasse[r] les mouches plates, les coups et les abeilles …» (v. 12).

Al cospetto di Dio, essere come gli asini è per Jammes motivo di estrema beatitudine perché la loro umile semplicità è riflesso del cristallino amore eterno.

La mitezza dell'asino non rappresenta un esempio di viltà ma, al contrario, la scelta di un cammino personale, dettato non dalle convenzioni ma da una forma di coerenza individuale:

 

[…]. Je désire, ainsi que je fis ici bas,
choisir un chemin pour aller, comme il me plaira,
au Paradis […].  (vv. 3-5)

Due anni dopo la morte di Jammes nasce a Genova Fabrizio De André (1940-1999) un altro poeta del '900. Di lui è noto un repertorio che ha attinto alla letteratura di tutti i tempi: dalle ballate medievali francesi (Il re fa rullare i tamburi, La ballata degli impiccati) ai sonetti di Cecco Angiolieri (S'i' fosse foco), dai vangeli apocrifi (La buona novella) a Edgar Lee Masters (Non al denaro, non all'amore né al cielo).

Anch'egli, nonostante una spiccata posizione anticlericale, sente l'esigenza, in un momento tragico, di rivolgere una preghiera a Dio. Nel '67 porge l'estremo saluto all'amico Luigi Tenco, morto suicida. Ne nasce Preghiera in gennaio, inserita nell'album del 1968 Volume I . La stagione in cui il dolore è più intenso non è la primavera di Jammes, ma quell'inverno che De André, in molti dei suoi testi, associa alla morte, riassumendo quindi la connotazione luttuosa della poesia francese (deuil) in una semplice deissi temporale (in gennaio). Il laico cantautore si rivolge a Dio, interlocutore comprensivo lontano dal giudice implacabile dipinto dalla società dei benpensanti, e gli chiede di accogliere un fratello sfortunato, spinto ad una scelta estrema.

Al singolo, come nella poesia di Jammes, si accoda una processione di anime («migliaia di quelle facce bianche», che ricordano le «milliers d'oreilles», v. 17) e, come gli asini, anche i suicidi di De André hanno deliberatamente scelto il loro percorso. Incompresi, in un mondo che troppo facilmente definisce vile una strada "diversa", i suicidi «mostra[ro]no coraggio» nel preferire la morte «all'odio e all'ignoranza». Per questo formano una schiera di «morti per oltraggio», secondo una definizione che può presentare una duplice accezione: quella di chi ha oltraggiato la morale comune e quella, diametralmente opposta, di chi ha subito l'oltraggio della vita. Torniamo così al breve ma intenso ritratto degli stessi diseredati che Jammes aveva racchiuso nell'immagine degli asini.

L'analogia tematica tra i due testi potrebbe sembrare il risultato di una sensibilità comune ai due autori, che fanno del proprio mestiere una missione sociale, ma il raffronto va ben oltre.

Inequivocabili spie denunciano che De André ha letto il testo di Jammes. Alcuni versi della poesia francese, tradotti in italiano in modo fedele, compaiono tra le righe della canzone, non soltanto nella scelta di un comune interlocutore (Dio) o nell'indicazione di un generico «quelli»/«ceux» che racchiude la schiera dei derelitti, ma in interi versi.

In contrasto con il momento del lutto, un gennaio sia metaforico che reale (Luigi Tenco viene trovato morto il 27 gennaio e, per ironia della sorte, lo stesso De André morirà proprio nel gennaio del 1999), il tema del paesaggio primaverile compare sin dalle prime parole della canzone:

 

Lascia che sia fiorito, Signore, il suo sentiero
quando a Te la sua anima e al mondo la sua pelle
dovrà riconsegnare […].

Immediato il richiamo all'esordio di Jammes:

 

Lorsqu'il faudra aller vers vous, ô mon Dieu, faites
que ce soit par un jour où la campagne en fête
poudroiera. […]. (vv. 1-3)

 

Entrambi i poeti sperano in una ricompensa che superi i dolori terreni e che simbolicamente unisca la luce diurna alla suggestione di un cielo stellato. Così Jammes immagina un «paradis, où sont en plein jour les étoiles» (v. 5). De André riproduce fedelmente l'immagine di un «cielo, là dove in pieno giorno risplendono le stelle».

Jammes non ammette che chi ha già sofferto in terra possa soffrire per ulteriori prepotenze in cielo, «car il n'y a pas d'enfer au pays du Bon Dieu» (v. 9). De André dice: «perché non c'è l'inferno nel mondo del buon Dio».

E se, secondo una differenza testuale, Jammes parla in prima persona mentre De André si pone da intermediario per un terzo, in entrambi i casi coloro che guidano la processione (il poeta/il suicida) non possono che invitare in Paradiso coloro che li seguono: «je leur dirai: Venez, doux amis du ciel bleu» (v. 10),  che diventa «ai suicidi dirà […]: venite in Paradiso».

Uguale è ancora la richiesta di intercessione: «Faites que dans la paix, des anges nous conduisent / vers des ruisseaux touffus où tremblent des cerises […] et faites que, penché dans ce séjour des âmes, / sur vos divines eaux, je sois pareil aux ânes» (v. 27-31). Nel testo italiano, rimane: «Fate che giunga a voi con le sue ossa stanche […], fate che a voi ritorni tra i morti per oltraggio […]». La citazione sembra particolarmente evidente, soprattutto perché sin dall'inizio, fino a questi versi, il cantautore ha apostrofato Dio dandogli del tu e probabilmente, nel passare al voi, c'è molto più di una licenza poetica. Si potrebbe infatti trattare di uno dei momenti in cui De André "confessa" la sua fonte.

Il paradiso auspicato da entrambi gli artisti è quindi destinato a «chi non ha sorriso, [a] quelli che han vissuto con la coscienza pura», gli stessi che potranno specchiare «leur humble et douce pauvreté / à la limpidité de l'amour éternel» (v. 32-33).

Si conclude così un'ennesima lettura del passato esperita dal poeta genovese che, al di là delle citazioni tradotte, si appropria di un testo facendolo suo e restituendolo con l'originalità che è la sua cifra costante.

 

Emanuela Gutkowski