1984. Creuza de mä (testi)
PRIMA STAMPA: ?/3/1984
1 - Creuza de mä
.........................................................................6'16"
2 - Jamin-a
...................................................................................4'52"
3 - Sidun
.......................................................................................6'25"
4 - Sinan capudàn pascià . . . . . . . ...............
. .. .. . . . . . . . . . . . .5'32"
5 - 'A pittima
........................................................ ...................... 3'43"
6 - A dumenega
...........................................................................3'40"
7 - Da a me riva
...........................................................................3'04"
Testi e musiche di Fabrizio De André e Mauro Pagani
Edizioni:
1984 Edizione promozionale (numero limitato di copie ) Ricordi – timbro con la dicitura "Campione gratuito"
nell'angolo inferiore destro della copertina.
1984 1a Tiratura Ricordi SMRL 6308 – copertina laminata, apribile, con i testi, le traduzioni in Italiano, i crediti e
alcuni suggerimenti per leggere gli accenti genovesi, insieme ad alcune note su detti e modi di dire –
Label
azzurra senza la scritta "Dischi Ricordi s.p.a.".
1984 2a Tiratura Ricordi SMRL 6308 – identica alla prima tiratura, ad eccezione della laminatura della copertina
–
Label azzurra con la scritta "Dischi Ricordi s.p.a.".
1984 Edizione Tedesca Ricordi 813.474-1 – copertina non apribile e con i testi sulla busta
interna.
1984 Edizione Giapponese (rare copie promozionali) Ricordi/Seven SEAS K28P 479 – copertina, apribile, con la grafica
che rispetta fedelmente quella italiana
– un allegato contiene le traduzioni in giapponese dei testi –
Label e' bianca con scritte nere – corredata dalla classica fascetta OBI, caratteristica
delle produzioni
discografiche nipponiche.
1984 Edizione Giapponese Ricordi/Seven SEAS K28P 479 – copertina con la grafica che rispetta fedelmente quella italiana
copertina apribile - un allegato contiene le traduzioni in giapponese dei testi – Label e' nera con scritte bianche –
corredata dalla classica fascetta OBI, caratteristica delle produzioni discografiche nipponiche.
1984 Musicassetta Ricordi RIK 76308
1987 CD Ricordi CDMRL 6308
1991
CD Edizione Giapponese, Ricordi/King Crime KICP 24 – presente fascetta OBI.
2002 BMG-Ricordi '74321974202 24 bit remastering
2009 SONY BMG 88697454772
2009 Gruppo editoriale l'Espresso 11
2011
8697920771 Sony RCA - Creuza de ma a- Vinile blu
2014 8843036982 Sony RCA - Creuza de ma - doppio CD per i 30 anni: Creuza de ma e La mia Genova
2014 8843039872 Sony RCA - Libro fotografico e doppio CD
2015 SONY Music
- Le grandi Collezioni Mondadori - con libretto inedito
Gruppo editoriale l'Espresso -11
8869782809211 dal cofanetto "La discoteca ideale degli anni 80" - venduto anche singolarmente
2011 Versione su vinile blu
Creuza De Ma (Doppio Cd Digipack, cd 1 album originale missaggio 2014 di Mauro Pagani, cd 2 live tour CREUZA DE MA)
CREUZA DE MA ('84)
Il commento di Pierpaolo
Questo album, senza alcuna enfasi, ha rappresentato la chiave di volta dell'intero panorama musicale italiano.
Il disco è cantato tutto in dialetto genovese e la musica è quasi interamente suonata con strumenti "etnici"; una scommessa controcorrente e decisamente contro ogni regola di mercato.
Per le musiche Fabrizio si è fatto accompagnare da Mauro Pagani, ex PFM, grande cultore di musica e strumenti provenienti da mondi minori e dimenticati, e in questo caso i nostri due artisti hanno soprattutto fatto riferimento a sonorità del bacino mediterraneo, dato che l'idea di fondo del disco è il viaggio, che nel caso di un genovese come Fabrizio non poteva non legarsi al concetto di mare e di navigazione.
L'album si apre con "Creuza de mà", brano che apre l'intero disco che descrive non solo verbalmente ma anche musicalmente (per es. le voci del mercato) personaggi e ambienti legati al mondo ligure sia marinaro che dell'entroterra.
"Jamin-a" è un ritratto a tutto tondo di una prostituta di origine araba che ogni marinaio vorrebbe incontrate in ogni porto.
Il terzo brano è "Sidun" un canto straziante di un padre che ha visto la cosa più atroce che può capitare ad un genitore: la morte violenta di suo figlio.
"Sinan Capudan Pascià" è la storia di un marinaio genovese del XV secolo che salvando la vita di un sultano arabo fu nominato "gran vizir", rigettando l'accusa di "rinnegato" per essersi convertito all'islam perché in fondo cosa ha fatto di male ha soltanto vissuto "bestemmiando Maometto al posto del Signore".
"A pittima" era l'esattore che veniva mandato dai privati cittadini a esigere i debiti nella Genova dei tempi andati.
"A dumenega" ricorda la passeggiata delle prostitute che venivano portate a spasso dalla "madama" con tutti i lazzi e le ironie anche da parte di coloro che non si peritano di sapere da dove vengano certi finanziamenti…
"D'a me riva" è decisamente un pezzo autobiografico visto che probabilmente nella stesura del disco Fabrizio trovandosi in Sardegna si trovava dalla sua riva dirimpetto alla altra "sua riva" cioè la Liguria in generale e Genova in particolare.
Voglio ricordare inoltre che il disco è risultato disco del decennio 1980-89 dal referendum indetto dalla rivista "Musica e Dischi" e premiato anche per la bellissima copertina.
Sidun
La canzone "Sidun", scritta con Mauro Pagani, è stata cantata e incisa in "Creuza de
mä" da Fabrizio De André nel 1984. Queste le parole con cui lui stesso la commentò:
"Sidone è la città libanese che ci ha regalato oltre all'uso delle lettere dell'alfabeto anche l'invenzione del
vetro. Me la sono immaginata, dopo l'attacco subito dalle truppe del generale Sharon del 1982, come un uomo arabo di mezz'età, sporco, disperato, sicuramente povero, che tiene in braccio il proprio figlio macinato
dai cingoli di un carro armato. (...) La piccola morte a cui accenno nel finale di questo canto, non va semplicisticamente confusa con la morte di un bambino piccolo. Bensì va metaforicamente intesa come la fine civile e
culturale di un piccolo paese: il Libano, la Fenicia, che nella sua discrezione è stata forse la più grande nutrice della civiltà mediterranea".
From : "Enrico Gori" <firemagmar@tiscalinet.it>
Nota: le correzioni suggerite sono state "incluse" nei testi.
Subject : Creuza De Ma: sguarùin zeneixi. (errori genovesi)
Date : Mon, 21 Jan 2002 19:44:16 +0100
Gentile Webmaster del sito www.viadelcampo.com,
A parte farle i complimenti per
il Suo bellissimo sito, decisamente più che degno del più grande poeta anarchico dell'ormai scorso secolo, volevo segnalarvi alcuni errori (il titolo della missiva significa infatti:errori genovesi) nei testi di Creuza De
Ma, album stupendo, e questo è aggettivo ancora banale..Non ci sono parole per descriverlo... Ma passiamo al dunque:
1) 'A Dumennega (titolo genovesizzato):
Nel verso "bruttu galusciu de
'n purtò (e accidenti, niente accento circonflesso)..." c'è un imprecisione dell'autore dei testi contenuti nella bustina dietro il disco. Vado a spiegare:
La vocale "o" con l'accento
circonflesso ha il significato di "------ore" (imperatore, portatore), e quindi sarebbe corretto. Ma l'incaricato ai testi ha scritto "purtou", dove il dittongo (che si pronuncia comunque ou e non u) ha
il significato di "ato" (rinnegato, portato, peccato). Personalmente opterei per la prima possibilità. Sicuramente era quella l'intenzione di Faber.
1bis) "A
Dumennega":
"Mancu ciù u nazu (sì, la "z" è una "s" impura in genovese) gh'avei..."
E qui, caro Faber, hai fatto un errore grosso, spero
incidentale....
Perchè "avei" è l'infinito presente del verbo "avere", il medesimo, appunto^_^
Mentre la forma corretta è "aviei", avete, appunto.
2)
Xaminn-a (Jamin-a, puro genovese):
A) l'erronea traduzione di "mussa pinn-a" (quella mussa non è
decisamente sazia... ma piena....)
La ringrazio del Suo tempo,
Un giovane
ammiratore di Faber (15 anni)
D'ä mæ riva
Ed ecco una bella e libere interpretazione di Riccardo Venturi, come solo lui sa fare:
D'ä mæ riva
Sulu u teu mandillu ciaèu
D'ä mæ riva
(Souvent, pour s'amuser...no, insomma, non è poi tanto
per divertirmi.
Sovente siedo su una spiaggia che dev'essere ghiaiosa, con dei bei
ciottoli di ogni dimensione, perché mi diverto a lanciarli in mare. Non m'importa che rimbalzino, mi basta sentire il rumore che
fa un sasso che cade nel mare. Me lo devo fissare continuamente dentro.
E qui mi viene a mente che nessuno potrà mai riprodurre esattamente un rumore, se non con una registrazione meccanica o, meglio, con cosa gliene resta
nel cervello, nella memoria lunga. Lo stesso vale per un odore. Le descrizioni non servono a niente. Che cosa sarà stato quel "mandillu ciaèu", quel fazzoletto chiaro? Quale rumore, quale odore vi sarà stato
associato?)
'Nta mæ vitta
u teu fatturisu amàu,
'Nta mæ vitta
(Aspetta, Fabrizio. Qui ci dici qualcosa di grande e di ambiguo. Il
sorriso amaro di chi? Di chi ti stava sventolando quel
fazzoletto
chiaro?
O della Città intera?
Si pensa sempre al sorriso di una persona, finanche di un animale. Certo è che anche le città possono sorridere, e amaramente. A me capita quasi sempre con Firenze, o forse
sono io che le dirigo sorrisi amari. Non so perché. Firenze è una smorfia che ad alcuni potrà sembrare un sorriso, ad altri chissà che cosa. Un'espressione di dolore. Uno sberleffo. Un inizio di pianto da parte di uno che
non piange quasi mai.
Di converso, m'immagino che Firenze usi verso di me lo stesso
trattamento.
Nella mia vita il suo sorriso amaro, sempre che ne sia capace. Sempre che ne siamo capaci. Mi chiedo quali
espressioni abbiano le città degli altri, i luoghi di tutti. Come sghignazzi Roma. Come tossisca Torino.
Come rida Bologna. Ci sarà una città che piange?)
Ti me perdunié u magún
Ma te pensu cuntru su
E u so ben,
t'ammìi u mä
'n po' ciû au largu du dulú
(Un po' più al largo del dolore, c'è un'isola. Appare sempre nella nebbia, tra i fuochi di porti lontani; nel gelo o nella calura, le onde si spezzano
su delle secche o su degli incagli prossimi alle rive frastagliate, rotte, scoscese. Non c'è nessuno, pur sapendo che l'isola vive e ed è vissuta. Al vederla, si gronda sudore per abitudine.
Nella piattitudine
dell'arrivo, si staglia la forma d'un monte ripido e
crestato in lontananza; nel cielo latteo si risentono le voci del
passato, algidi tromboni che parrebbero non avere alcun senso. Al di là delle voci, sono i
ricordi, distillati goccia a goccia, che rimangono incatenati come Prometeo; le tue vanità sono oramai sepolte nel midollo;
la nebbia quasi s'incastra nella salsedine.
Ci si ammassa negli angoli della nave, le facce
sono tetramente
inespressive. Le luci del porto. Ci si nutre per un attimo della
speranza o dell'abbaglio che tutto ciò torni ad essere una forma. Ma è solo, e lo si sa, qualcosa più al largo, e più largo, del
dolore.)
E sun chi affaciòu
A 'stu bàule da mainä
E sun chi a miä
(Nella foto, spedita dal Taller Fotográfico Mounier & Hijos di Buenos Aires, si vedono due signori di mezz'età. Se non fosse che
li riconosci come i tuoi zii, Sebastiana e Dino, si direbbero due corpulenti coniugi argentini; eppure passavi al Vapelo, su per la Salita del Salandro, e sapevi che abitavano li'. Scale che si perdono negli
oleandri.
Tornarono, e il baule era nella stanza principale, e quasi unica, della vecchia casa. Il gabinetto era ancora di quelli pensili, bisognava uscire fuori nel corridoio. La televisione gracchiava in bianco e nero,
Pippo Baudo giovanissimo, Nino Ferrer, Febo Conti. L'uomo era quasi infermo nelle gambe, ma aveva una straordinaria forza nelle mani. La donna tirava il mulino e la croce. Il baule. Non ho mai saputo che cosa ci fosse
dentro, ma non ho mai chiesto d'aprirlo. Ma forse c'erano
Tréi camixe de vellûu
Dui cuverte u mandurlín
E 'n camä de legnu dûu)
E non ho più nessuna foto, se non quelle immagini che ho dentro
come fossero un rumore o un odore. Il sasso che tiro nell'acqua, il pomodoro che bolle nel pentolone, il primo morto in purtrefazione, il sangue, lo sparo che uccise Rodolfo Boschi, l'odore del primo sesso femminile che
ho visto, il rumore della prima porta che ho sbattuto in faccia a qualcuno o che qualcuno mi ha sbattuto in faccia.
E' tutto cosi'; eppure la canzone dura pochissimo. E' una breve
interazione di una voce e di
due accordi. C'era tutto, e forse non lo
sapevo. Ma arrivano le cinque del mattino, è ora d'andare.
E 'nte 'na berretta nèigra
A teu foto da fantinn-a
Pe puèi baxâ ancún Zena
'Nscià teu
bucca in naftalinn-a.
*Riccardo Venturi*
*Er muoz gelîchesame die leiter abewerfen
*So er an îr ûfgestigen ist (Vogelweide)
From : Riccardo Venturi <venturi@spl.at>
To : fabrizio@yahoogroups.com
Subject : [fabrizio] Sinàn Capudàn pascià
Date : Mon, 15 Oct 2001 11:27:13 -0700 (PDT)
...e questa l'è a memöia,
a memöia do Çigä,
ma 'nsci libbri de stöia
Sinàn Capudàn Pascià...
(Fabrizio de André, "Sinàn Capudàn Pascià")
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Scipione Cicala era nato a Genova da una nobile ed antica famiglia viscomitale, nel 1552. La notizia pare assolutamente certa, malgrado alcuni lo abbiano voluto originario della Calabria o della Sicilia.
Vedremo comunque in seguito che la Calabria lo vide comunque protagonista di una delle sue imprese.
All'eta' di 19 anni, nel 1561, il giovane Cicala s'imbarco' assieme al padre, diretto in Spagna; ma, nei pressi di Messina, la loro nave venne abbordata da dei pirati barbareschi ed il giovane venne fatto prigioniero condotto a Costantinopoli. Ai giovani rapiti veniva usualmente posta l'alternativa di abiurare la propria religione ed entrare nel corpo dei Giannizzeri (turco < yeni ceri > "nuovo soldato"), oppure d'essere messi a morte. Scipione Cicala non ebbe naturalmente dubbi; abiuro' il cristianesimo, abbraccio' l'Islam ed entro' nel famoso corpo militare ottomano.
Scipione Cicala, sembra, era un giovane di rara bellezza. La cosa, oltre ad interessare le fanciulle turche, piacque soprattutto al sultano Suleyman (ovvero Solimano II), che aveva certe "tendenze". Non si sa esattamente che cosa avvenne, ma da quel momento la fortuna del Cicala ha un'impennata verso l'alto: giunge ai piu' alti gradi del corpo dei Giannizzeri, e' rispettato e temuto a corte ed ottiene il titolo di Pascia'.
Nel frattempo, abbracciando la nuova religione, Scipione Cicala ha cambiato nome. Si chiama prima Hassan Çigala-zade (pronunciato alla turca, con l'accento in fondo: çigalà), aggiungendo pero' al nuovo nome, in ricordo della sua citta' natia, la denominazione di "Sinan" (= genovese, da "Sina" la denominazione ottomana di Genova derivata direttamente da "Zena"). All'apice della sua fortuna, a Sinan Hassan Çigala-zade Pascià viene addirittura permesso di aggiungere al suo gia' complicatissimo nome la denominazione di "Kapudan", alla lettera "facente parte della Sublime Porta" (Kapu).
Il Cicala (continueremo a chiamarlo cosi' per comodita') rivela doti militari non comuni; dal corpo dei Giannizzeri viene posto a capo di una flotta corsara che, nel 1594-95, compie numerose e violente incursioni nell'Italia meridionale, particolarmente in Calabria; Soverato, Cirò Marina e la stessa Reggio vengono messe a ferro e fuoco, e ancora adesso e' nota questa strofa popolare:
Arrivaru li turchi, a la marina
Cu Scipioni Cicala e novanta galeri.
Na matina di maggiu, Ciro' vozzi coraggiu
Mentre poi a settembri, tocco' a Riggiu.
Genti fujiti, jiti a la muntagna,
Accussì di li turchi nessuno vi pigghia!
Arrivarono i turchi alla marina,
Con Scipione Cicala e 90 galee.
Una mattina di maggio Ciro' ebbe coraggio,
Mentre poi a settembre toccò a Reggio.
Gente correte, fuggite alla montagna,
Cosi' dei turchi nessuno vi piglia!
Nel 1596 il Cicala torna al servizio di fanteria e conduce i suoi Giannizzeri alla vittoria contro gli Austriaci nella battaglia di Mezõ-Kerésztes, in Ungheria; lo stesso successo gli arride nell'assedio della citta' di Erlau.
Nel 1602 il Cicala e' di nuovo a capo di una flotta corsara, e la sua mèta e' di nuovo la Calabria. La citta' di Reggio e' in preda alle ostilita' intestine tra i Melissari e i Monsolini, con morti e feriti; il capitano turco-genovese intende approfittarne per impadronirsene.
Al momento dell'incursione, pero', la flotta turca viene fatta oggetto di un fitto ed inaspettato cannoneggiamento, e il Cicala viene costretto a recedere nella rada di Motta, dove sbarca ed attende tempi migliori per marciare su Reggio. Ad un certo punto, tenta la conquista attraverso uno stratagemma: prende uno dei suoi soldati, un sardo nano anch'esso a suo tempo catturato in una scorreria, e lo traveste da soldato spagnolo. Il sardo viene, per la sua minuscola statura, introdotto nei cunicoli che conducono alla rocca, per aprirne le porte; ma vi rimane incastrato.
Visto l'insuccesso dello stratagemma, il Cicala tenta l'azione di forza con 3000 uomini che vengono fronteggiati da 1000 reggini, tra cui 400 uomini condotti da Gerolamo Musitano, che lo sconfiggono a Sant'Agata.
Tornato sconfitto a Costantinopoli, Scipione Cicala, o Hassan Sinan Çigala-zade Kapudan Pascià, cade in disgrazia. C'e' chi lo vuole morto pochi mesi dopo, chi nel 1605 in una battaglia in Podolia. Non aveva mai piu' rivisto Genova.
E chissa' che non sventolasse per lui quel fazzoletto di cui si parla in "D'a mæ riva", in quel lontano giorno del 1561.
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(R.Vent.)