viadelcampo15

Contributi

  1. Contributo di Giorgio Bezzecchi per la rivista "A"
  2. Genova, 8 Ottobre 1970 di  Filip (http://filste.wordpress.com/2008/12/19/genova70/)
  3. 11 Gennaio 2019, un testo di Franco Senia (tratto dalla Mailing  List)
  4. CapoHorn, una manifesto per gli orfani come noi, di Riccardo Venturi
  5. Le nuvole barocche di Fabrizio De Andrè  di Claudio Scarpa
  6. STORIA DI UN IMPIEGATO, Liberamente tratto dal disco di F.De Andrè "STORIA DI UN IMPIEGATO" (1973, BMG Ricordi) di Lucia Coccia
  7. Due poesi di Max
  8. Una poesia di Santo Catanuto
  9. Una poesia di Olimpio Diaceri
  10. De André e la Francia, tra "poesia" e "canzone" di Riccardo Venturi
  11. DAGLI ASINI DI FRANCIS JAMMES AI SUICIDI: LA TRADUZIONE DI FABRIZIO DE ANDRÉ
  12. AI FUNERAI DEL PIRATA, canzone di Alessio Lega
  13. Ho visto Nina volare...a Matera, di Carlo Bonanni
  14. A Fabrizio, di Claudio Ferrante
  15. Una simpatica rielaborazione di Bocca di rosa, fatta da
    Riccardo Mannini per il matrimonio della sorella Rosa, ad Aperola (NA)
  16. Un'attento studio su "Smisurata Preghiera", di Giacomo Falconi. Da non perdere.
  17. Buon compleanno Faber!
  18. Tesina di Jacopo Ghirardelli
  19. Un omaggio un pò estremo, di  Marco di La Spezia
  20. Un apprezzato omaggio, uno schizzo fatto da Thomas Berra durante l'evento a Castellanza e dedicato a questo sito.
  21. Faber, poesia di Alberto Barina
  22. Una mostra fotografica dedicata a Dolcenera, di Valentina Abbate
     

 

Ti troverò domani ( elegia per Fabrizio de Andrè )

Ti troverò seduto in faccia all' orizzonte
Di un mare senza vento. Un soffio sulla fronte
Ti porterà i tormenti di anime ingannate
Che cercano un motivo dal giorno che son nate

Respirerò il mattino di un tempo che riposa
All'ombra di mimose e di petali di rosa
Un debole respiro piegato alla tua voce
Ti ascolterà narrare di ladri morti in croce

e mare, e gente inutile, di spose e di puttane
Di amori arrampicati a logore sottane
Di vecchi pescatori col sale dentro al petto
Che navigano il mondo con il respiro stretto

Mi arrenderò a quegli occhi che ancor scorgo invocare
Che chiedono, che spiegano, non sanno giudicare
Che tendono la mano a raccogliere il destino
Di chi non ha che il tempo davanti al suo cammino

Raccontamela adesso la vita oltre a quel ponte
Del Cristo che hai cantato per cento e mille volte
Riportami in quel sogno di folle senza inferno
Che tu hai reso uguale sui fogli di un quaderno

Mi siederò al tuo fianco sul ciglio di un estate
Che asciugherà a fatica le mie mani sudate
M'inonderò di calma nel tempo di un sorriso
Con gli occhi chiusi, colmi, di quel tuo paradiso.

Massimo Molinari Gennaio 2004

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Fabrizio i leskero ovi rom
ot Giorgio Bezzecchi

P rengjargjum Fabrizio po jek dive silalo i suslo, sar vajk andu Milano, angle ot Camera del Lavoro, po stighe kaj pe gjal andre.

Hine urado kun roba ot sena, jek roba kali i retikani, i civlepe sukar vasu keri slike, vasu "Anime salve". hari ala i hari tempo,phenu ke lako keru,po romane "khorakhane". Gjav nasat po ufficio kun gagjo so keri manza buti, Maurizio Pagani, kaj alo manza i pheni manghe ke hilo sukar kaj ov vakeri vasu roma.

 Andu ufficio citinu lil so pisini po romane, i vale sunu giso, suno buth ricja, tinanupe. Posle savo dive jku pal Fabrizio andu leskero studjo, sukar vakeri manza, lacjo gagjo, vakeri sukar vasu roma, prengjari romen, vakeri vasu roma sar jek cjacjo rom, sar na sungjum vakeri vasu roma nindar ot kada keru buti sar Esperto di Etnie Nomadi. Gjav avri i sunupe sar ti vakergjum kun jek baro rom, ke na sungjum nindar, ma so phurane manghe da tiknoro vekerne.

Fabrizio hine prjatli ot roma i ot kon hine pase lende ot dugo.kame mislini kaj po svecer po presentazjone ot "Anime salve", Fabrizio kangja mande i Maurizio Pagani po hal svecer kaj hine buth importanti gene. Meni i Maurizio, sakon po rici so murinle keri vasu "Khorakhane" , besame po jek rik i misliname samo vasu hal i pii, gage po mende jkene buth, Fabrizio i Dori prastene vajk gi mende, ame hame i na jkame po gage. Fabrizio hine gjoke, skivo, mislinave meni, saj su dova leske injeme milo,na pe kerame phare. Hine jek rici ke kerame samo me i Fabrizio, persu Maurizio, kada pe alacjame vasu keri po romane "Khorakhane",pjame lace.

  I onda na ascjovave leske palan........

Fabrizio e il suo essere rom

============== traduzione in italiano ==================

Ho conosciuto Fabrizio in una giornata fredda e umida, come è frequente a Milano,di fronte alla Camera del lavoro,sulla gradinata d'ingresso.

Era vestito con abiti di scena, un vestito scuro e formale, intento ad assumere posture adatte per la produzione di fotografie, probabilmente, per "Anime Salve". Poco tempo e poche parole, confermo la mia disponibilità per l'incarico proposto, tradurrò in romani chib la sua canzone,"Khorakhane". Rientro in ufficio con il mio collega, Maurizio Pagani, che mi ha accompagnato e ha partecipato all'incontro con Fabrizio, che mi evidenzia l'importanza dell'attenzione dimostrata per il popolo stigmatizzato, i rom, da parte di Fabrizio.

In ufficio leggo il testo da tradurre e subito "sento"uscire dal testo una forza e una rabbia particolare, un'attenzione nelle parole unica, sofferenza e apartheid aleggiano nell'aria, sensazioni e pulsioni mi fanno rabbrividire. Dopo pochi giorni rivedo Fabrizio nel suo studio, ha nei miei confronti un attenzione particolare, mi "vizia"e parla dei rom con cognizione di causa, conosce in modo approfondito i rom, mi accorgo di avere di fronte un pozzo di cultura e mi sento trascinare in una discussione sui rom ad un livello da me mai percepito nella mia lunga attività professionale di Esperto di etnie nomadi. Esco dall'incontro con la sensazione di aver discusso con un baro rom, un saggio, che non ho mai avuto il piacere di incontrare, di cui gli anziani rom mi parlavano da bambino.

Fabrizio era un amico dei Rom, ma anche di chi stava da molto tempo vicino a loro.Voglio ricordare che la sera della presentazione a Milano di "Anime salve", Fabrizio invitò me e Maurizio Pagani ad una cena a cui erano presenti molte personalità del mondo della cultura e della musica. Io e Maurizio, che avevamo seguito ognuno per la propria parte l'incarico che Fabrizio mi diede per la traduzione di "Khorakhanè", sedevamo in disparte dedicandoci in verità più al cibo e alle bevande depositate sulla tavola che agli sguardi furtivi che scivolavano da un tavolo all'altro. Fabrizio e così anche Dori, più di una volta si sedettero a conversare con noi al nostro tavolo e così, ben presto, ci trovammo, nostro malgrado, al centro dell'attenzione generale, senza per questo tralasciare l'impegno verso gli squisiti piatti che seguitavano ad essere depositati davanti a noi.

Fabrizio era così, schivo per natura o almeno così appariva a me e forse per questo si era in un qualche modo avvicinato a noi due che non cercavamo d'imporre la nostra presenza un po', come allora, capitava a tutti i rom. C'era una cosa che tuttavia accomunava solo me e Fabrizio e non Maurizio, nei lunghi incontri e nelle chiacchierate che precedevano o seguivano le richieste di traduzione di Khorakhanè o di conoscenza del "mio" mondo ovvero, le dolci bevute.

E a quel tempo nemmeno io rimanevo indietro…
(traduzione dal romanès di Giorgio Bezzecchi)

Fabrizio era così, schivo per natura
o almeno così appariva a me

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Genova, 8 Ottobre 1970
(19 Dicembre 2008 di ragpickerfil)

Liberamente ispirato a: Dolcenera (F. De André)
Dio come manchi… ma quanto ci metti? Quando arrivi? Impazzisco in questa stanza, mi sento un leone in gabbia - ma quale leone, solo un agnello! Sposto oggetti, tocco fogli, guardo le ore. Fuori piove, dalla finestra la luce entra sempre più scura. E' fitta quest'acqua, cade e cade da mattina presto, ancora non si ferma, ancora la guardo e più la fisso più sembra rabbiosa, forte, incessante. Mannaggia, penso al traffico a rilento che avrà causato, penso a te che infreddolita probabilmente mi stai raggiungendo, ma coi mezzi è sempre lunga, figuriamoci quando piove. Ti sarei venuto a prendere da qualche parte, a metà strada per lo meno, ma tu no, non vuoi, non cedi mai. Anselmo, ti fa paura. Anselmo, che ti ama così tanto, così forte. Anselmo che può, che ne ha diritto, così bene e così onestamente che lo invidio, lo odio, lo compatisco.
Non mi piace pensarti quando non ci sei, per questo odio i tuoi ritardi. Lo sai questo, ma non capisci perché. Non capisci che non sei tu, ma tuo marito… Io non sono così, io non rubo, io non mento, io non faccio male a nessuno. Perché con lui sì? Non lo conosco, non ne ho bisogno, non voglio. Io non sono così, no, non sono come sono. Lui è il mio senso di colpa più grande, è la mia insonnia della sera tardi, è il cerchio alla testa la mattina presto, è quel riflesso nello specchio dal qdi Fuale distolgo sempre gli occhi imbarazzato. Imbarazzato del mio riflesso, dei miei occhi!  Perché è il riflesso di un amante codardo, perché sono gli occhi di un bugiardo, un ipocrita che ogni giorno - ogni giorno! - dice "Ora basta, oggi la finiamo!". Poi ti vedo, col tuo cappotto stretto e col tuo profumo: è la fine, non di noi due, ma della mia fermezza.  E' inutile, sono debole, sono innamorato. Lo sai anche tu, l'amore ha l'amore come solo argomento,  non riesco a fermarlo, non voglio farlo.
Vigliacco.
Mi sdraio vestito, con le scarpe, chiudo gli occhi. Ancora non ci sei, e il tempo corre trascinato dai miei pensieri, spinto dalle paure, tirato dai dubbi. Ancora quest'acqua, troppa! Sentila! Tap-tap-tap-tap-tap-tap -tap… picchia sottile, picchia terribile, non sente ragioni. Siamo lei e io, nient'altro. Dio, quasi ci spero che ti abbia sostituito per oggi, che la forza selvaggia di questa natura sia forte abbastanza per fermarci, senz'altro più forte di me. La natura è donna, c'hai mai fatto caso? Fermati, Amore, torna indietro, torna da chi ti aspetta, da chi ti prenderà i vestiti fradici e muoverà le dita tra le ciocche bagnate dei tuoi bei capelli. "Pazza," - dirà - "dove pensavi di andare con quest'acqua?!". Inventa qualcosa, una scusa, qualsiasi… tanto gli basterà averti lì, sarà soddisfatto. Sì, torna, vattene. Lasciami. Non ti servo a niente.
Intanto sento i tuoi passi, sono sulle scale e salgono. Si aggiungono al ticchettio della pioggia come il crescere della musica in un bolero. Sei arrivata, ce l'hai fatta. Il cuore mi batte come quello di un ragazzino mentre mi alzo. Entri col fiatone, il batticuore, chiudi la porta e mi salti al collo. "Scusami se arrivo ora! C'è l'inferno lì fuori!". Sei fradicia, e stai perfino a chiedermi scusa! "Sei pazza?! Scusa di che?", ti stringi addosso come una gatta infreddolita. Come devo fare, cosa ti posso dare se non tutto l'amore che sento dentro?
Ora siamo solo noi due. Chiusi dalla pioggia, lontani dal mondo che non bada, sommerso sotto quest'acqua: belìn, troppa ce ne vorrebbe ancora per lavare via tutta la sporcizia che ci circonda. Niente ha più importanza mentre ti prendo. Ti amo, ti amo con tutta la forza di cui sono capace. Più di ogni valore, più di ogni ragionamento mai intrapreso, mai fatto. Nemmeno Anselmo conta più, la sua ombra è uscita dalla porta che hai aperto entrando, nel momento esatto. Vi siete incrociati, tu non l'hai visto ma io sì. Ti prendo con tutta la forza di cui sono capace, che non mi basta mai. E' troppa la vita che ci vorremmo scambiare, troppa la pelle tua che vorrei coprire di me. Intanto un rombo sordo, basso, cupo. Il mondo ruota, si capovolge, inclina, gira. Come un terremoto, trema con noi. La montagna sembra scricchiolare, cedere. Niente ci può fermare, niente ! So cos'è, so chi ci chiama: è il Bisagno che si è svegliato, giudice di destino, torrente di fango che come noi , intrappolato da una città troppo stretta, decide di prendersi la sua rivincita, di scappare, di cercare il mare e la libertà. Scende, scende veloce e incurante della vita altrui. Come noi. Scende e afferra tutto, tonnara di passanti e di automobili, e più scende più sembra salire. Come noi. Prende, copre, avvolge ogni rumore, ogni dolore, ogni cosa; come noi. Sì, è come noi: inarrestabile. Siamo fatti della stessa sostanza, anime troppo grandi per essere fermate. Ci chiama, ci invita, ci cerca per indicarci la strada. Vuole me, lo so: mi vuole portare via per sempre, salvarmi, perché da solo non sono in grado. Ora però non posso, ora ho da fare, il tumulto del cielo ha decisamente sbagliato momento. Non ci fare caso, Amore mio, non ci badare: siamo sempre qui, ancora qui.
Siamo qui, e tutto passa. Anche l'acqua, senti? Si sta calmando. Scende la sua rabbia, più non si gonfia. Lascia solo fango, solo macerie alle sue spalle, e sguscia nei vicoli più stretti, in rigagnoli sempre più fini. Cosa resta dopo l'orgasmo di un momento? La vita di prima. Più difficile forse, forse da risistemare… ma sempre la stessa. E allora cos'è stato? L'evasione di un momento? E' davvero stato così indispensabile? Doveva quel fiume maledetto strabordare? E di noi cosa dici? Era necessario? Inutile tentare di ripescare le ragioni di un momento, non saranno più le stesse. Non saranno così forti. Saranno meno vere, più traballanti , più complicate. Eppure tardi, ogni volta troppo tardi: solo il tempo per pentirsi resta sempre, anzi abbonda.
Vigliacco.
Siamo solo questo: due vigliacchi. Tolta la maschera, non abbiamo pudore. Dove sei adesso, dove?! Mi sveglio. Un sogno, è stato tutto un sogno, o forse no… guardo fuori, la pioggia è cessata, ma Dio, tutto quel fango! La strada del pomeriggio non è quella, non è la stessa. Irriconoscibile. Un tappeto di detriti la copre per tutta la lunghezza, da un muro all'altro, incollando mobili, pietre, carcasse di macchine. Gente per strada cammina a fatica, alza gli stivali appesantiti e sposta ciò che intralcia la via. Si chiamano a vicenda, si sollecitano. E tu dove sei? Devi essere tornata a casa prima che succedesse, devi aver capito che era impossibile arrivare, come avevo detto.
Non sarà tuo il cadavere di donna che domattina troveranno sepolto nella melma, a due chilometri da qui. Non sarai tu, ma un'altra, chiunque altra. Io aspetto una tua chiamata, lo so che ti farai viva appena potrai, appena troverai un momento adatto.
Ti aspetterò, come ho sempre fatto… Ti aspetterò.
 

 

11 GENNAIO 2019

Finalmente queste cazzo di feste sono finite.
Tutta quell'euforia, per poi cosa? Migliaia e migliaia di persone che si sbattono per niente.
Fino alla fiammata finale: il capodanno!
Era così anche vent'anni fa. Me lo ricordo bene, quello del duemila.
Abbiamo camminato sopra una tappeto di cocci di bottiglie.
Era l'ultimo dell'anno e pensavamo che di lì a una decina di giorni sarebbe
caduto l'anniversario della morte di fabrizio.
Era il primo anniversario. Il peggiore.
Sì, me ne ricordo proprio bene.
Ne è passato di tempo. Chi l'avrebbe mai detto che il newsgroup, e perfino la mailing list in suo nome, avrebbero resistito per tutto questo tempo.
Già è un miracolo che abbia resistito internet, tutto questo tempo!
Eppure, dopo vent'anni, ci ritroviamo ancora periodicamente per le nostre "piole".
La percentuale di "canutezza" è aumentata considerevolmente, da allora, ai tavoli.
E a volte mi chiedo se per caso non possiamo sembrare un pò.....Come dire? patetici?
Ma guarda tu cosa mi metto a pensare!
Sarà meglio andare a berci qualcosa, prima di commuoverci troppo.
Alla mia età, i ricordi sono da evitare, come la peste!

Fischiettando "Il Pescatore", varcai l'entrata del bar e mi diressi verso il bancone.
Il locale era deserto, data l'ora tarda, tranne che per un vecchio, seduto in un angolo, di spalle, ad un tavolino. (Mi accorsi che l'uomo era vecchio dalla lentezza dei movimenti con cui si versava da bere e accostava il bicchiere alle labbra; da questo e dal candore della barba che gli adornava il viso. La intravvidi, la barba, quando l'uomo girò impercettibilmente il capo e mi lanciò un'occhiata fugace.)
Senza un particolare motivo, trasportai il boccale di corona (perfezionato con la cuervo) al tavolo vicino a quello dov'era seduto il vecchio. Sedetti e, dopo aver acceso l'ennesima sigaretta di troppo, chiusi gli occhi, assaporando il fumo e la calma.

-"Mi scusi, era una canzone di fabrizio de andré? quella che fischiettava  prima?"- una voce di un basso profondo mi riportò alla vita.
-"Sì. Certo." - risposi, osservando la faccia dell'uomo che mi aveva posto  la domanda.
-"Me ne ricordo" - continuò il vecchio, più riflettendo ad alta voce che interloquendo.
- "Le sapevo cantare quelle canzoni, una volta. Le conoscevo bene." - sospirò.

Continuavo ad osservare le rughe profonde, i capelli bianchi e lisci.
Mi soffermai a fissare l'occhio semichiuso che si intravvedeva attraverso le lenti spesse degli occhiali.

- "Sono vent'anni, oggi." Buttai lì.
- "Me ne ricordo" - ripetè il vecchio. "Certo che si è levato da un bell'impiccio.
Aveva firmato un contratto che gli imponeva di fare tre dischi in non rammento più quanti anni." - disse, ridacchiando.
- "Tre anni, mi pare. O forse cinque. Era un bel problema, comunque, per
uno pigro come il nostro amico" - risposi.
- "Proprio un bel problema" - rimarcò l'uomo - "In un modo o nell'altro, però, l'ha risolto"
- "Mi sono chiesto spesso, in questi anni, cosa farebbe, oggi, uno come lui"
- lasciai che la domanda si formulasse.
- "Niente di particolare, credo." - arrivò puntuale la risposta - "Magari, sarebbe iscritto ad un mailing list su fabrizio de andré. Magari ogni tanto andrebbe a dare un'occhiata a quello che viene postato su it.fan.musica.de-andre.
Tanto per cercare di riconsiderare quello che ha scritto sotto una diversa angolatura.
Tanto per riascoltare le sue canzoni attraverso le orecchie di altri.".
-"E magari gli potrebbe anche venir voglia di partecipare alla prossima "piola", fra qualche settimana!" - scherzai, ma non troppo.
-"Sì, credo proprio di sì." - Concluse il vecchio, alzandosi.

-"Adesso è ora che io vada." - Una specie di sorriso gli illuminava il viso mentre, dopo avermi stretto la mano, si incamminava per la sua strada.

--Franco Senia--
 

 

Capo Horn (di Riccardo Venturi)

Noi che viaggiamo in direzione contraria, avevamo un compagno di strada discreto e forte. La sua voce, il più bel paesaggio, faceva sembrare più corto il cammino; e magari eravamo gli unici a capirlo, e lo facevamo scendere senza seguirlo e senza avergli sfiorato la mano.

Viaggiamo sempre in quella direzione, ma ognuno coi propri percorsi. A volte ci affianchiamo e facciamo un tratto assieme; a volte sembriamo invece allontanarci. Contraria non significa parallela; e non sappiamo neppure se ci sia una meta, o non ci sia. Entriamo ed usciamo dai luoghi; vi rientriamo e vi usciamo di nuovo.

Che siano state e siano canzoni e parole, non è neanche interamente certo.
Durante il cammino parliamo delle nostre visioni, e sono inevitabili gli scontri così come le carezze. Gli amori come le indifferenze. Credo che ci lanciamo continuamente dei segnali, ma a volte l'etere è disturbato; navighiamo quasi sempre a vista. E quando viene la sera ed il buio, spesso non c'è niente che ci toglie il dolore dagli occhi; ed allora il mare si fa ancor più infido, si sente rombare Capo Horn in lontananza e ci perdiamo in un vento terribile.

Noi che viaggiamo in direzione contraria abbiamo sempre una musica addosso; non sarebbe pensabile veder sfilare gli altri senza essere accompagnati da una giravolta di note. Vediamo la maggioranza senza neppure avere un Belvedere delle Torri; Maqroll il Gabbiere è forse su un bastimento dove lo pagano meglio. Ogni tanto alziamo gli occhi al cielo, o li sprofondiamo per terra: sono i gesti di ogni giorno, di ogni ora.

Che cosa ci unisce? Chi lo sa. Vorremmo lasciarci piovere addosso, e la pioggia non arriva; quando arriva, siamo già da un'altra parte tormentata dalla siccità.
He is the ancyent marinere, and he stoppeth one of the three; non c'è da far altro che credere e andare avanti, senza peraltro sapere come son disposti i punti cardinali. Crediamo nella rivoluzione perché siamo sulla Terra; la rivoluzione terrestre ce l'abbiamo dentro.

Water, water everywhere, and all the boards did shrink; water, water everywhere, and neither a drop to drink. Capo Horn s'avvicina in un'alba livida. Che cosa troveremo al di là? Il sole? La giustizia? Un mare calmo? L'amore eterno? Un gelato al pistacchio? Letame e diamanti? Fabrizio de André?

 R.Vent.
Riccardo Venturi
e-mail: venturi@couriermail.de
 

 

Le nuvole barocche di Fabrizio De Andrè
(dedicato ad un amico perduto, Lionello Sed) di Claudio Scarpa

Pensavamo tutti che mai avrebbe potuto lasciarci, come gli eroi, come i suoi personaggi in controluce, come gli antichi alfieri che tornano dalle battaglie feriti ma pur sempre vivi. Il ricordarlo attraverso le sue tristi stesure musicali, attraverso i suoi possibili ed impossibili personaggi ci aiuta a non dimenticarlo. Dietro la sua scomparsa, per fortuna, solo la notizia e qualche servizio, senza quel clamore a tinte forti che ha invece seguito la fine di Lucio Battisti, autore dei popolino semplice e dei facili costumi musicali. De Andrè è stato Artista Vero, completo, ineguagliabile.
Grossa differenza quindi con l'altro da sempre e per sempre più conclamato ed osannato anche troppo, in troppe occasioni. De Andrè era profondo nei suoi testi, ermetico a volte, ma maledettamente sincero verso sé stesso ed il suo pubblico; Battisti era uno speciale autore di musiche, diventate fortuna grazie ad uno scaltro ed astuto paroliere che ha coperto delle lacune balzate subito a galla quando il sodalizio con Mogol è naufragato miseramente.
 

Le luci ed i clamori spesi e scialacquati dai giornali, dalla immancabile e patetica Mamma Rai e dai sempre presenti canali politici della 'copertura' Fininvest sono stati prodighi e prolissi nei confronti di Lucio, un vero e proprio avvenimento annunciato e prosciugato fino all'osso, mentre per Fabrizio (anche per quella storica mancanza di professionalità che viene sempre a galla quando questi colossi si dedicano alla musica) è stato molto più una notizia e molto meno un avvenimento da indici di ascolto. Ma De Andrè era questo, uno schivo di natura (non come l'altro, schivo anche per ragioni propriamente professionali e sentimentali: un interprete che dal vivo ha sempre avuto dei problemi insormontabili per una riuscita vocale che non risultasse approssimativa) che raccontava di fatti e persone, di usurpatori e tiranni contro i deboli e gli oppressi, quei personaggi perdenti di natura che riescano a denunciare o addirittura riscattare una intera condizione sociale, Ma chi erano i personaggi in controluce di Fabrizio? Gente che potremmo incontrare per strada ovunque o riferimenti storici letti coi senno di poi.

Così ecco la spassosa satira di Carlo Martello che torna trionfante e vincitore dalla battaglia di Poitier e si accorge che le tariffe delle puttane, durante la sua assenza, sono largamente lievitate. Ne "Ia canzone dell'amore perduto" invece ecco risaltare i momenti opachi e ormai prosciugati di un amore che per troppo tempo ha già vissuto e che non offre più nessun guizzo, nessun sentimento. La triste storia di Marinella, così impossibile da risultar vera o la parabola de Il gorilla" che al di fuori da ogni tabù atavico impressiona la gente perché potrebbe scambiare la donna per la sua simile al femminile. La denuncia della guerra per esempio si affaccia spesso in De Andrè e la si ritrova in molti richiami e in forme diverse, sempre con il comun denominatore dell'ostracismo ai mezzi forti per risolvere le questioni. Ne "La ballata dell'eroe" dove la sua donna in effetti avrebbe preferito un uomo vivo anziché un eroe morto; ne "La guerra di Piero" che muore per il fatto che non ha avuto il coraggio di sparare ad un suo simile ma quello non gli ricambia la cortesia. Alla triste ed esasperata storia di Amore che vieni amore che vai" si contrappone la beffarda eredità de Il testamento" o l'angoscioso sacrificio dei Michè che si suicida in cella per poter finalmente uscirne, la mancanza di coraggio per non voler passare 20 anni in prigione e al quale non si concede né il prete né la messa, perché d'un suicida non hanno pietà. Il sogno dell'amore impensato di "Nell'acqua della chiara fontana", Capolavoro tra i capolavori sicuramente la Preghiera in gennaio" ancora un inno e una denuncia alla società di non perdonare un suicida; si dice che questa canzone Fabrizio la dedicasse all'amico Luigi Tenco e al suo ultimo gesto disperato; chiede perdono Fabrizio per tutti coloro che son morti suicidi e lo invoca quasi perché ...
Meglio di lui nessuno mai ti potrà indicare gli errori di noi tutti che puoi e vuoi salvare.
Ascolta la sua voce che ormai canta nel vento, Dio di misericordia vedrai, sarai contento...

E proprio in "Si chiamava Gesù De Andrè racconta il proprio modo di interpretare la venuta di Cristo sulla terra, un uomo venuto da molto lontano a convertire bestie e gente e che morì come tutti si muore, come tutti cambiando colore ... Di Maria dicono fosse il figlio, sulla croce sbiancò come un giglio...

E la condizione delle donne di malaffare è stato anche un altro appiglio per De Andrè di rigirare la lama nella piaga della società come la'graziosa'di "Via dei campo" , una bambina che a. tutti vende la stessa rosa o nella spassosa ed imperdibile "Bocca di rosa" che metteva l'amore sopra ogni cosa il trionfo di sensazioni dei sacro e dei profano. I poveri cristi abitanti de 'Ia città vecchia" nei quartieri dove il sole dei buon Dio non dà i suoi raggi avendo davvero troppi impegni per scaldar la gente d'altri paraggi.
Nelle rarissime cover di Fabrizio a parte quelle dei Francesi illustri, troviamo invece le storie di "Giovanna D'Arco" e di "Suzanne" di Leonard Cohen o la magnifica ed inarrivabile Via della povertà" di Bob Dylan dove nel pezzo finale un giovanissimo Francesco De Gregori suona l'armonica.

E di questo passo si potrebbe continuare per ore, giorni, anni. Il ricordare Fabrizio attraverso i testi delle sue canzoni sarebbe un gioco davvero infinito; piace ricordarlo anche per la superba Le passanti" dove ognuno di noi può ritrovare le occasioni perdute della propria vita, quelle immagini care per qualche istante, sarete presto una folla distante, scavalcate da un ricordo più vicino...

Si potrebbe continuare così per pagine e pagine, ho voluto soltanto citare pochissime delle tante canzoni immortali che l'artista ci ha lasciato. A noi, poveri mortali, il compito di continuare a far conoscere le sue incredibili lezioni di vita.

Ciao Fabrizio, dormi sepolto in un campo di grano... E come tutte le più belle cose, vivesti solo un giorno, come le rose...

Claudio Scar

 

 

 

 

 

 

STORIA DI UN IMPIEGATO

 Liberamente tratto dal disco di F.De Andrè "STORIA DI UN IMPIEGATO" (1973, BMG Ricordi)

 "La vita non è che una processione di ombre e Dio solo sa perché le abbracciamo tanto ardentemente e le vediamo scomparire con tanta angoscia, dato che sono ombre"
                       Virginia Woolf

  By Lucia Coccia (superlucia83@yahoo.it)
 

PROLOGO

"Soggiorno a Parigi: della libertà e delle altre ombre da cui prende vita un racconto"

Si stava facendo sera. Dovevo tornare al mio domicilio, ma sia la mia mente sia le mie gambe confondevano questo pensiero al punto riuscire a convincermi del fatto che il mio posto era lì, a Boulevard St- Michel e da nessun'altra parte, mentre un'altra me, che compativo, in quel momento doveva essere in procinto di consumare il suo pane quotidiano della sera in qualche posto che non ricordavo.

Avevo i piedi a pezzi a causa del gran camminare di quei giorni: Parigi è una città bellissima, ci ero andata per la prima volta ed ero estasiata, per questo giravo e rigiravo come una trottola fra avenues e boulevards senza ascoltare minimamente le proteste dei miei arti inferiori; finché questi ultimi pensarono bene di mostrarmi sotto forma di dolorosi calli lo sforzo cui li stavo sottoponendo. Eppure non mi diedi per vinta e continuai a respirare l'aria della capitale francese direttamente nelle sue strade e ad abbagliare i miei occhi davanti alla maestosità di ciò che aveva fatto di quella città, artisticamente parlando, una delle più grandi in Europa e nel mondo. Ma non ero lì solo come turista: il mio passo piuttosto affrettato (per la gioia dei miei piedi) prendeva un ritmo più blando all'improvviso, fermandosi spesso del tutto, non appena individuavo una di quelle graziose librerie al cui esterno si liquidavano a poco prezzo libri ingialliti ed appesantiti da quel mostro corrosivo e a volte benefico che siamo soliti chiamare tempo. Allora la mia mente si era imbarcata su un treno che, se avesse seguito fino alla fine il suo binario senza deragliare in ingenuità e banalità, sarebbe giunto all'agognata stazione di un discreto racconto sul '68, per il quale mi lambiccavo il cervello già da qualche mese. Benché avessi idee ed entusiasmo, però, dovevo riconoscere il fatto che ero, o, meglio, credevo di essere, poco e male informata. In questo senso il mio viaggio a Parigi fu la mia svolta: dove documentarsi meglio, infatti, se non nella città in cui il '68 è nato, ha contagiato il mondo ed è morto nelle mani della politica? Già mie mete erano state Nanterre e la Sorbonne, nonché quasi ogni vicolo del Quartiere Latino, ma il mio obiettivo era essere al corrente di cosa i francesi pensassero di questa rivoluzione, confrontando dovutamente opinioni diverse o opposte. E, naturalmente, per fare ciò avevo bisogno di qualcosa di scritto, di un pezzo di storia, ma anche di vita quotidiana, immortalato e cristallizzato in lettere, parole, proposizioni, in modo da avvicinarsi il più possibile alla verità.

Così, con un libro di poesie di Rimbaud in mano, acquistato per una decina di franchi appena, mi aggiravo concentrata spostando ed esaminando accuratamente ed avidamente volumi polverosi che trattavano dei più svariati argomenti. Procedendo in questo modo, dimentica del posto in cui mi trovavo, della gente che mi stava intorno e che camminava portando nei suoi passi i più svariati pensieri, del fatto che ero a Parigi e di tutto il resto. Il sole, re di un cielo azzurro stranamente sgombro della più piccola nuvola, troneggiava sui tetti blu e sulle finestre più alte dei palazzi del boulevard. Pedoni distratti attendevano il verde sulle strisce pedonali, non curanti di automobili e di autobus non meno distratti che sfrecciavano davanti a loro senza nemmeno sfiorarli con lo sguardo e, se per caso ciò accadeva, dopo dieci metri gli abitanti di quegli strani veicoli a quattro ruote non ricordavano già più il viso di chi stava fermo ad attendere di attraversare.

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2 poesie di Max.
Ritrovate dopo aver ascoltato l'ultimo brano dell'ultimo disco di Cristiano De Andrè

t2
Mi eri sembrata così bella.
Vidi i tuoi capelli,
scuri.
Vidi i tuoi occhi,
i tuoi occhi belli,
con i quali sei passata incolume
attraverso l'odio e l'indifferenza.

Ti amo, gioia mia,
come solo un padre ama il figlio.

Sei andata, ora.
Come è la notte,
quando si srotola piano
avanti al sole.

E se il gatto si spancia
raccontando quanto ti fosse amico
per ogni tuo sorriso,
per ogni tua carezza,
per ogni tua stretta di mano,
bella mia,
sono io adesso che esigo la tua voce.

Che tu mi possa venire sempre a trovare!
Da dentro le fibre delle mie corde vocali.
io sarò qui ad aspettare.

 

t1
Vicino al bordo estremo, al confine ultimo della vita normale,
ed il passaggio non è così immediato,
sempre guardando al tavolo vicino della birreria di stasera,
dove ti sembrano solo cumuli di macerie umane
quelli che si affogano consenzienti in una pizza tagliata al metro
ti parrebbe scontato il tuo valore
come che tu fossi, amore, una magnifica e preziosa perla blu.
Mai abbiamo aspettato tanto a lungo un insegnamento
perché era tale e così scontato il nostro lucido guardare nelle cose
che non ci siamo accorti di aver saltato qualche pagina del manuale di istruzioni
che ci avevano dato il giorno di dimissioni dall'incubatrice.
Eppure no, io non ti dimenticherò.

Chissà se qualche parola deciderà, per sua sola forza,
di arrivare all'oggetto del suo pungere vistoso,
del suo essere veicolo per il mio darmi alla vita.
Ma ancora non posso pensare
alla voce nascosta dietro un blu funebre
che mi intossica e mi addolora l'anima
e mi fa pensare alla netta e vistosa piaga
del dieci di gennaio.

E' stata una giornata faticosa
chè io non so più come rendere al nulla del mio cupido soliloquio
(vano latrato inseguito in ogni notte)
la vera misura delle mie sensazioni.
Se solo fosse così semplice come piangere un eroe sconosciuto
un caduto ignoto glorioso in guerra!
Ma il tuo sorriso era come quello di un amico, capitano.
E non dimenticherò
Non dimenticherò
 

da: "massimo casanova" <maxplank@libero.it

 

From: "-[)@Ni(0)-" <Danio@rigel.it>
To: <webmaster@viadelcampo.com>
Sent: Sunday, May 19, 2002 1:45 PM
Subject: Santo Catanuto, tributo a Fabrizio.

Lasciamo eredità insolute
a quanti scopriranno
solo adesso
un raro senso
al tuo parafrasare.
Restiamo accanto a temi
imputrescenti
fin quando vino
fiato
acqua alla gola
non ci faranno dire
<<ecco, è finita>>
e l'ultima parola
spetta a noi.
Il tuo momento
lungo quanto il tempo
che ci accompagna
e ci scandisce il mondo
è stato un divenire
di pensiero
a galla
nella quotidianità
che la tua voce calma
un po' scordata
ha preso acceso aperto
di sensibilità.
Si sa che il mondo scorre e si va via
come un uccello in volo verso sud
(quanti l'han fatto e lo faranno ancora!)
molecole di niente
son diventate vere
nel mondo dei diamanti
senza più temporali.
Stavolta non piangiamo nel deserto
cercando mari assurdi e rette vie
né fari illuminanti
né osterie
ci basta solo un canto,
la tua voce,
nel rilassare mente e gambe stanche
dal gran peregrinare
sopra circonferenze:
vuote disequità.
Ci basta solo un canto,
la tua voce,
per fare il giusto conto
il punto nave
e intravvedere il centro
incancrenito
della mediocrità.
Stavolta non piangiamo
stando stretti.
Molecole di niente
ormai son vere.
Con il tuo canto
abbiamo avuto figli:
sappiamo ancora bene
cos'è la libertà.

 

Apocrifo

Ho avuto paura era come una guerra
Ma guerrieri o codardi si ritorna alla terra
Eppure era inverno e tempo di neve
Andarsene al buio sembrava più lieve
E ora che vedo del vento il colore
E' strana quest'ansia pare quasi un dolore.

L'infinito si espande e vi osservo distanti
In un mare di pece siete stelle filanti
Verità non conosco che non fosse cercare
Nelle tasche non ho niente da poter regalare
E dividere a mezzo le mie stesse emozioni
Ispirava gli accordi di cento canzoni.

Ho lasciato che il cuore guidasse i miei passi
La mia strada ho percorso contandone i sassi
Anche adesso che parto perché sono costretto
Che l'amore continui a non farmi difetto
E se posso davvero dialogare con Dio
Pregherò perché resti molto più che un addio.

Se un sogno vi lascio tenetelo stretto
Non c'è dietro l'angolo un mondo perfetto
Conservatevi allora ben sgombra una via
Che bello sarebbe si chiamasse utopia
E meglio mi sembra aver cura di un gatto
Che seguire le insegne di un re mentecatto.

Piangete coi deboli siate duri coi forti
Gettate l'invidia riparatene i torti
Più saggio passare mille volte per fesso
Che scoprir nello specchio d'un boia il riflesso
E per meta non datevi un cinque più uno 
Ma pietà per la pena di chi prova il digiuno.

Che folla qui intorno un po' lo speravo
Un gran girotondo come quando giocavo
Ammucchian tesori in enormi panieri
Sono tutti quei sogni dei giorni di ieri
E chissà che non possa come le gazze ladre
Rubare una perla riabbracciare mio padre.

Se poi decidete di giocare il mio gioco
Fatelo subito accendete un gran fuoco
Buttateci dentro la rabbia e il rancore
Scaldate chi ha freddo regalategli un fiore
E se l'ultima nota se l'è presa gennaio
So legger le stelle da buon marinaio.

E' finita quest'ansia è finito il dolore
Adesso lo vedo del vento il colore
Mai come prima vi scopro e vi sento
Di quel che ho fatto posso esser contento
Con voi ho vissuto e non è che l'inizio
A tutti un bacio…… arrivederci…… Fabrizio.             
 " APOCRIFO"        O.D.   16/01/1999

 

DAGLI ASINI DI FRANCIS JAMMES AI SUICIDI: LA TRADUZIONE DI FABRIZIO DE ANDRÉ

 

La Gallimard ha da poco ripubblicato alcune poesie di Francis Jammes (1868-1938), a dimostrazione dell'attualità di un poeta dalla sensibilità contemporanea. La raccolta porta, come titolo, Prière pour aller au paradis avec les ânes, da una poesia data per la prima volta alle stampe nel 1901 e inclusa  originariamente ne Le Deuil des primevères. Quest'ultima è una silloge di quattordici preghiere che il "Cygne d'Orthez", in odore di conversione, rivolge a un Dio roussoiano, che suscita una religiosità più cristiana che cattolica. La fede del poeta spinge Gide, suo amico, a etichettarlo ironicamente, in una lettera, «saint Francis Jammes», con un'esplicita allusione a Francesco d'Assisi.

La conversione si compie nel 1905 e trova massima espressione nell'opera dell'anno successivo, Clairières dans le ciel (1906), a partire dalla quale l'ispirazione religiosa e quella rustica diventano indissociabili. La svolta mistica di Jammes non costituisce del resto un episodio isolato nella temperie culturale della Francia di inizio secolo, ispirata dal "ritorno a Dio" di Claudel.

Nonostante aderisca quindi ad una tendenza generalizzata, Jammes è spesso guardato dalla critica come esempio di anticonformismo. E controcorrente lo è, sia nelle sue scelte formali, che lo portano a riscoprire la melodia dell'alessandrino in un momento in cui impera il verso libero, sia nel proprio percorso tematico.

Il suo ritorno alla fede è semplice, quasi infantile, scevro da cerebrali appesantimenti filosofici o teologici. Jammes sceglie di lodare Dio attraverso uno sguardo attento alla verità delle cose, allontanandosi così dal sensuale esotismo dei suoi contemporanei: un atteggiamento che nel 1897 era già stato definito, sul Mercure de France, «jammisme». E ancora prima della conversione, si rivolge al Creatore con molta naturalezza. Nella Prière pour aller au paradis avec les ânes l'animale domestico, fraterno e sottomesso, diventa simbolo di un'umanità rassegnata ai soprusi del prossimo. Con gli asini prende l'avvio una lunga processione di vinti dalla vita, di dostoevskiani "idioti".

La campagna in primavera è il momento ideale per l'ultimo viaggio e gli asini sono i compagni prescelti per apparire dinanzi al Creatore. Il poeta si pone tra loro, autonominandosi apertamente («Je suis Francis Jammes et je vais au Paradis, […].», v. 8) e scegliendo quindi la compagnia delle bestie che abbassano il capo, le stesse che hanno sopportato enormi fatiche e i colpi inferti dalla mano altrui. Cammina con loro, che la vita ha messo in ridicolo o alla gogna e la cui unica, inoffensiva difesa è costituita dalle lunghe orecchie per «chasse[r] les mouches plates, les coups et les abeilles …» (v. 12).

Al cospetto di Dio, essere come gli asini è per Jammes motivo di estrema beatitudine perché la loro umile semplicità è riflesso del cristallino amore eterno.

La mitezza dell'asino non rappresenta un esempio di viltà ma, al contrario, la scelta di un cammino personale, dettato non dalle convenzioni ma da una forma di coerenza individuale:

 

[…]. Je désire, ainsi que je fis ici bas,
choisir un chemin pour aller, comme il me plaira,
au Paradis […].  (vv. 3-5)

Due anni dopo la morte di Jammes nasce a Genova Fabrizio De André (1940-1999) un altro poeta del '900. Di lui è noto un repertorio che ha attinto alla letteratura di tutti i tempi: dalle ballate medievali francesi (Il re fa rullare i tamburi, La ballata degli impiccati) ai sonetti di Cecco Angiolieri (S'i' fosse foco), dai vangeli apocrifi (La buona novella) a Edgar Lee Masters (Non al denaro, non all'amore né al cielo).

Anch'egli, nonostante una spiccata posizione anticlericale, sente l'esigenza, in un momento tragico, di rivolgere una preghiera a Dio. Nel '67 porge l'estremo saluto all'amico Luigi Tenco, morto suicida. Ne nasce Preghiera in gennaio, inserita nell'album del 1968 Volume I . La stagione in cui il dolore è più intenso non è la primavera di Jammes, ma quell'inverno che De André, in molti dei suoi testi, associa alla morte, riassumendo quindi la connotazione luttuosa della poesia francese (deuil) in una semplice deissi temporale (in gennaio). Il laico cantautore si rivolge a Dio, interlocutore comprensivo lontano dal giudice implacabile dipinto dalla società dei benpensanti, e gli chiede di accogliere un fratello sfortunato, spinto ad una scelta estrema.

Al singolo, come nella poesia di Jammes, si accoda una processione di anime («migliaia di quelle facce bianche», che ricordano le «milliers d'oreilles», v. 17) e, come gli asini, anche i suicidi di De André hanno deliberatamente scelto il loro percorso. Incompresi, in un mondo che troppo facilmente definisce vile una strada "diversa", i suicidi «mostra[ro]no coraggio» nel preferire la morte «all'odio e all'ignoranza». Per questo formano una schiera di «morti per oltraggio», secondo una definizione che può presentare una duplice accezione: quella di chi ha oltraggiato la morale comune e quella, diametralmente opposta, di chi ha subito l'oltraggio della vita. Torniamo così al breve ma intenso ritratto degli stessi diseredati che Jammes aveva racchiuso nell'immagine degli asini.

L'analogia tematica tra i due testi potrebbe sembrare il risultato di una sensibilità comune ai due autori, che fanno del proprio mestiere una missione sociale, ma il raffronto va ben oltre.

Inequivocabili spie denunciano che De André ha letto il testo di Jammes. Alcuni versi della poesia francese, tradotti in italiano in modo fedele, compaiono tra le righe della canzone, non soltanto nella scelta di un comune interlocutore (Dio) o nell'indicazione di un generico «quelli»/«ceux» che racchiude la schiera dei derelitti, ma in interi versi.

In contrasto con il momento del lutto, un gennaio sia metaforico che reale (Luigi Tenco viene trovato morto il 27 gennaio e, per ironia della sorte, lo stesso De André morirà proprio nel gennaio del 1999), il tema del paesaggio primaverile compare sin dalle prime parole della canzone:

 

Lascia che sia fiorito, Signore, il suo sentiero
quando a Te la sua anima e al mondo la sua pelle
dovrà riconsegnare […].

Immediato il richiamo all'esordio di Jammes:

 

Lorsqu'il faudra aller vers vous, ô mon Dieu, faites
que ce soit par un jour où la campagne en fête
poudroiera. […]. (vv. 1-3)

 

Entrambi i poeti sperano in una ricompensa che superi i dolori terreni e che simbolicamente unisca la luce diurna alla suggestione di un cielo stellato. Così Jammes immagina un «paradis, où sont en plein jour les étoiles» (v. 5). De André riproduce fedelmente l'immagine di un «cielo, là dove in pieno giorno risplendono le stelle».

Jammes non ammette che chi ha già sofferto in terra possa soffrire per ulteriori prepotenze in cielo, «car il n'y a pas d'enfer au pays du Bon Dieu» (v. 9). De André dice: «perché non c'è l'inferno nel mondo del buon Dio».

E se, secondo una differenza testuale, Jammes parla in prima persona mentre De André si pone da intermediario per un terzo, in entrambi i casi coloro che guidano la processione (il poeta/il suicida) non possono che invitare in Paradiso coloro che li seguono: «je leur dirai: Venez, doux amis du ciel bleu» (v. 10),  che diventa «ai suicidi dirà […]: venite in Paradiso».

Uguale è ancora la richiesta di intercessione: «Faites que dans la paix, des anges nous conduisent / vers des ruisseaux touffus où tremblent des cerises […] et faites que, penché dans ce séjour des âmes, / sur vos divines eaux, je sois pareil aux ânes» (v. 27-31). Nel testo italiano, rimane: «Fate che giunga a voi con le sue ossa stanche […], fate che a voi ritorni tra i morti per oltraggio […]». La citazione sembra particolarmente evidente, soprattutto perché sin dall'inizio, fino a questi versi, il cantautore ha apostrofato Dio dandogli del tu e probabilmente, nel passare al voi, c'è molto più di una licenza poetica. Si potrebbe infatti trattare di uno dei momenti in cui De André "confessa" la sua fonte.

Il paradiso auspicato da entrambi gli artisti è quindi destinato a «chi non ha sorriso, [a] quelli che han vissuto con la coscienza pura», gli stessi che potranno specchiare «leur humble et douce pauvreté / à la limpidité de l'amour éternel» (v. 32-33).

Si conclude così un'ennesima lettura del passato esperita dal poeta genovese che, al di là delle citazioni tradotte, si appropria di un testo facendolo suo e restituendolo con l'originalità che è la sua cifra costante.

 

Emanuela Gutkowski

 

 

                       Canzone per Fabrizio

Crescemmo insieme
in un giardino fiorito
sull' erba bagnata
e un profumo antico,
tu non sei mai morto
continuerai a soffiare
fin dentro il mio cuore
e lo farai sanguinare.

Sotto il cielo terso
tenue un bambino
si stupisce ancora
del pesco fiorito,

"e poi la luce
luce che trasforma
il mondo in un giocattolo
faremo gli occhiali cosi'!
faremo gli occhiali cosi'!"

                                                   

                                                                                                                          G Gentili (circa2002)

 

Ho visto Nina … a  Matera

 

Una tradizione della città di Matera, oggi purtroppo già estinta, vede da oltre due secoli, le donne più anziane dedite all'antico mestiere dell'apicultura. Sembra che usassero masticare fettine di favo, all'uopo preparate, per ore ed ore, ottenendo in tal modo la separazione del miele dalla cera. Queste due preziose sostanze venivano quindi espulse dalla bocca in appositi recipienti, e quindi, pronte per l'uso.

Questa storia mi è arrivata direttamente da Ivano Fossati quando, ad un concerto di vari anni fa, ha introdotto la canzone "Ho visto Nina Volare", scritta insieme a Fabrizio De André.

E' stata una vera e propria Rivelazione. Lo stesso Fossati mi ha confessato di essere stato letteralmente rapito da quella terra e di avervi soggiornato a lungo, con Fabrizio, per alimentare il fiume di poesia portato da quegli enormi affluenti che sono le tradizioni orali di quel posto.

E' singolare e nello stesso tempo intuitivo come in questa leggenda siano reciprocamente intrecciate la vicenda religiosa, come  il rito della comunione, insieme ad una pratica di accrescimento ancestrale, quale  quella del pasto collettivo. E lo studio del comportamento dell' uomo spesso ci ha tramandato che, a tali "comunioni",  prendono parte prevalentemente i soggetti che non presiedono alla difesa del territorio e che non vanno a caccia: le donne. Trattandosi poi di un rito molto importante per la sopravvivenza, sono le donne più anziane che ne assumono la piena responsabilità di svolgimento.

Ma fra i famosi "Sassi", gli adulti invecchiano e scompaiono, i giovani nascono e crescono, ed anche se gli individui cambiano tutti, mi piace immaginare questo convoglio di umanità rimanere insieme e uguale a se stesso, sotto il peso dei cunicoli di masse lente, su viottoli serpiginosi capaci di dar direzione agli uomini, agli asini, alle acque e agli spiriti…

E nelle grotte e intorno al fuoco che sembra accendere le danze degli spiriti dell'ombra, una bimba, rapita dal gioco delle fiammelle, guarda la nonna che "…Mastica e sputa da una parte il miele

      Mastica e sputa dall'altra la cera

      Mastica e sputa prima che faccia neve…"

Questo il sogno reiterato, a poussées, quasi un refrain, delle mie notti sui Sassi, fra strade di cenere come un pianto asciutto, piatte ed ondulate, con andamento di fiume tra muri alti di calcio e balconate di tufo che tradiscono il vuoto.

Non c'è rumore che possa svegliarmi, né luce tenue che come collirio possa levigare le ferite dei muri stesi come lenzuola materne anche per un estraneo come me.

Di grotta in grotta sono un re forestiero sulla rupe dell'arnia, sono l'ape ceraiola della Gravina, fino al fondo dell'imbuto, dove il vento cade solo a spruzzi, sui cespugli di malerba bagnata.

Oltre il disordine del mondo sento il mio passo più sicuro dentro questo sogno.

 

Carlo Bonanni

 

A Fabrizio

Ti ho conosciuto quel mattino:
l'indomani della tua notte.

Spirava un vento clandestino
che oggi sostiene le tue idee a frotte.

Ha smesso ormai di soffiare,
ma basterà per far navigare
nei nostri mari di pensiero:
"Bocca di rosa", "Marinella", "La guerra di Piero".

Ti giungono le tue canzoni? Nelle sere
dei colloqui, tra le stelle, di una stella.
Sai? Sono diventate preghiere:
"Amico fragile", "Via del campo", "La buona novella".

Genova, Napoli…, per entrambe un piccolo re
di sospetti, di rispetti, di affetti.
"Karakhonè", "Geordie", "Don Raffaè",
"Se ti tagliassero a pezzetti".

Hai dato fendenti frustate, destanti
sulla dura groppa dell'oblio;
riesumando l'uomo sotterrato dai venti
di tempeste aizzate da un falso dio.

Segno del tempo, come le rughe che ti hanno segnato,
solco di un epoca che resta, sei passato…
"Amore che vieni, amore che vai",
come "Il pescatore", "Le nuvole", tornerai?

Ad importi con le armi dell'anima, timido dittatore:
della morte, del bastardo, della puttana, del cuore…
In fondo cosa hai voluto lasciarci?
Nient'altro che una condanna ad amarci:
"La cattiva strada", "Si chiamava Gesù", "Dolcenera".
Quando ci riusciremo, sarà la tua canzone che si avvera.

Stiamo anche gioendo in questo giorno,
perché la tua andata è stato anche un ritorno…
con "Rimini", "Sally", "La morte",
assidui come paggi a corte…

Memori di non aver a fondo compreso
il tuo animo patrizio dalla scorza plebea;
questo pensiero va per esteso
a te ed alla tua grande nomea.

                                                                                                               Claudio ferrante

.

.questo e' un tributo che mio figlio Paolo ha scritto per  l'anniversario della nascita di Fabrizio.. (allemacc@virgilio.it <allemacc@virgilio.it>)

BUON COMPLEANNO FABER !

Il 18 febbraio 2006 Faber avrebbe compiuto 66 anni. Moriva invece la notte dell 11 gennaio 1999 all' istituto tumori di Milano, dov'era ricoverato, pochi mesi dopo aver ricevuto la diagnosi di cancro al polmone. Di quel giorno ho un ricordo che mi si è fissato in testa con una nitidezza fotografica: gli occhi di mia madre che si fanno tristi e il suo "No, cazzo…" che gli esce di getto, senza pensarci, come succede solo quando qualcosa ti tocca per davvero. L'apertura di tutti i notiziari di quel giorno ci è rotolata addosso come un macigno. Nella mia vita, nella mia famiglia, De Andrè è stato una costante, ci sono cresciuto. Ogni sua canzone è per me un tasto di richiamo ad un periodo della mia vita che altrimenti sarebbe morto, e che invece rivive completo delle sensazioni e degli odori di allora, ogni volta che la sua musica riempie l'aria. Il mio rapporto con Faber è atavico, sanguigno, emozionale prima ancora che poetico o tematico, ed è così per i molti figli della sua generazione che hanno avuto la fortuna di scoprirlo anche molto tempo dopo averlo conosciuto. È una scoperta che va ampliandosi giorno per giorno, ogni volta che si coglie nelle sue liriche qualcosa in più rispetto alla volta prima, o quando la realtà attuale della società ravviva

" l'ansia per una giustizia sociale che ancora non esiste", dando alla sua opera intera un connotato profetico che è prerogativa dei Grandi, ma quelli Grandi davvero, quelli che quando ti fanno il tiro di crepare ti strappano un "No, cazzo…" senza che nemmeno te ne accorgi. Quelli che con la loro poesia sono stati capaci di scandire il tempo di molte vite e di aprire molti occhi. Quelli che sono stati capaci di dar voce a qualcosa che è dentro alla povera gente da sempre ma non ha mai trovato la strada giusta per venire allo scoperto, rimanendo in attesa di un riscatto che poi è arrivato stringendo la chitarra in una mano e un quaderno di poesie nell'altra.

L'eredità che ci ha lasciato De Andrè è l'umiltà di non voler dividere sempre il bene dal male, di capire senza giudicare, di rendere giustizia agli emarginati e agli emancipati di tutto il mondo. De Andrè ci ha lasciato in eredità un amore immenso per tutta l'umanità, che è il denominatore comune a tutti i più grandi rivoluzionari, da Gesù Cristo a Che Guevara. L'anarchia è venuta dopo, come un vestito che gli calzava a pennello, come qualcosa che lui stesso ha inventato senza nemmeno farlo apposta. E questo è il denominatore comune a tutti gli anarchici, quelli veri almeno. Sette anni dopo la sua scomparsa voglio rendergli omaggio, voglio ricordarlo ma soprattutto voglio ringraziarlo per tutto ciò che ha dato e continua a dare tramite la sua poesia, veicolo di un messaggio che si può condensare in un unico meraviglioso scopo: lasciare il mondo migliore di come lo abbiamo trovato.

Buon compleanno Faber!

Paolo

 

FABER (di Alberto Barina)

La sera,
quando le finestre si fanno leggere
un foglio s'impiglia
tra i rami e la luna;
tu germoglio chiamato
alla primavera perenne.

Maggio profuma
di una solitudine così umana,
e tutto
sembra farsi più lontano;
la voce e la terra,
i ricordi, il mare,
un grembo di pietre,
i contorni di una poesia
che vince su ogni guerra,
le stanze vuote e le parole,
gli anni venerati dalla stanchezza.

Cos'è
questo ritornare
sempre a riva,
a volte come Pescatore,
a volte in forma di conchiglia.
(Alberto Barina)

 

All'Attenzione dei Webmaster del sito www.viadelcampo.com
desideriamo segnalarvi lo speciale su De André scritto da alcuni studenti della Facoltà di Lingue a Ragusa, segno che le opere di De André non sono dimenticate dai più giovani e suscitano riflessioni sempre diverse in chi ascolta
http://www.iblalab.it/index.php?id=5034-un-dissacratore-un-consacratore
http://www.iblalab.it/index.php?id=5035-tutti-morimmo-a-stento
http://www.iblalab.it/index.php?id=5036-la-voce-delle-minoranze-khorakhane
http://www.iblalab.it/index.php?id=5037-l-umorismo-di-de-andre
http://www.iblalab.it/index.php?id=5038-se-ti-tagliassero-a-pezzetti
http://www.iblalab.it/index.php?id=5039-e-nonostante-tutto-a-me-piace-battisti
vi ringraziamo per l'attenzione
la Redazione Iblalab