De André e la Francia: tra "canzone" e "poesia"
From: "Riccardo Venturi" <venturik@ifrance.com>
1. Non sono mai stato granché "preso" dall'eterna diatriba tra "canzone" e "poesia"; mia intenzione è esclusivamente quella di analizzare l'opera di un
autore di canzoni dal punto di vista dei rapporti che lo legano ad altri autori, ad altre atmosfere e ad altre realtà. In questo non c'è e non ci può essere alcuna differenza essenziale, di sostanza e di metodo, tra
occuparsi di un De André o di un "poeta" riconosciuto generalmente come tale; tanto più che, nel gioco delle influenze e della loro disamina (per oggettività, ipotesi verosimili e/o probabili e suggestioni [NOTA 1]),
la "poesia" è ben presente e lo è, spesso, per derivazione diretta da una realtà più
consolidata culturalmente e temporalmente, e di conseguenza presa, più o meno consciamente, a modello.
E' il caso di
Fabrizio de André e della "Francia", comprendendo sotto questo nome tutta una tradizione nella quale la "canzone" e la "poesia" sono intimamente legate ad ogni livello, anche nell'accettazione
evidente della cosa promossa da tempo a dato di fatto. Vi si sentono gli echi di tempi assai remoti, forse addirittura del Medioevo e della poesia-canzone trovatorica [NOTA 2].
2. Avrete senz'altro capito che questi
miei piccoli articoli, o saggi (piccoli perché forzatamente costretti nello spazio di una serie di post o di mail; ma non escludo, un giorno, di ampliare la cosa per mio diletto personale dato che credo nel valore assoluto
dell' "otium" più elevato), fanno parte di un "progetto" volto ad analizzare sistematicamente l'opera di De André dal punto di vista
storico/teorico, quindi trattando De André come un qualsiasi
altro autore e ben lungi sia da definizioni-etichetta che dal biografismo, dall'aneddotica e dalle ciàccole imperanti specie dopo la sua morte.
Nella prima parte di questo "progetto" (è un termine che,
generalmente, detesto; ma non ho purtroppo trovato niente di meglio per quel che ho intenzione di fare) mi sono occupato dei legami tra Fabrizio de André e Georges Brassens, vale a dire di quelli più palesi, diretti e noti
relativamente al cosiddetto "primo periodo" [NOTA 3]; ma De André non è solo Brassens, e tutta la canzone francese "en bloc" ha contribuito a "farlo".
3. Come è stato messo in luce da Luigi
Viva nella sua biografia [NOTA 4], tra la famiglia De André e la Francia esistono dei legami profondi e "storici"; le stesse origini della famiglia (com'è del resto abbastanza facile intuire dal cognome stesso)
sono francesi e, pare, provenzali. A parte ciò, si tratta di un "milieu" altoborghese e culturalmente elevato (perdipiù situato in un'area, tra Genova e il Piemonte, vicinissima alla Francia sotto tutti gli
aspetti) dove la lingua francese non è solo conosciuta passivamente, ma utilizzata anche nella vita di tutti i giorni (come spesso avveniva nelle grandi famiglie aristocratiche o dell'alta borghesia di qualche tempo fa, la
conoscenza e l'uso del francese, lingua "nobiliare", era una sorta di segno di distinzione obbligato).
Fabrizio de André, quindi, conosceva e leggeva correntemente il francese; le sue "traduzioni" (o
riscritture) non sono passate attraverso un intermediario fisico o indiretto (ed il francese di un Brassens, ad esempio, non è certamente semplice intriso com'è di riferimenti letterari, gergalismi e quant'altro -che
presuppongono una conoscenza autenticamente profonda della lingua e dell'intera letteratura francese).
4. A tutto ciò devono essere aggiunte due cose a mio parere
fondamentali: l'attitudine culturalmente aperta della famiglia De André (soprattutto del padre), in cui la scoperta del "nuovo" (proveniente non solo d'Oltralpe) e l'abitudine di commentarlo e, per
cosi' dire, di "viverlo", erano delle realtà, e l'importanza della musica nel "milieu" familiare (tutto sommato, Fabrizio de André è venuto al mondo al suono d'un valzer divenuto poi
"per un amore"!).
Tutte queste cose passano quasi per natura sul terreno della canzone; dai suoi frequenti viaggi in Francia, il dr. Giuseppe de André riporta regolarmente due cose: libri e dischi. E' il padre
che, attorno al '54, fa conoscere Brassens in casa propria; e siamo due soli anni dopo l'esordio discografico del "sétois" e dai suoi primi passi nel cabaret di Montmartre tenuto da Patachou (sulla place du
Tertre, "où mourut Paul Verlaine"). Con tutta probabilità, Fabrizio de André è stato davvero tra i primissimi in Italia che abbiano conosciuto Georges Brassens e le sue canzoni.
5. In questo ambiente imbevuto
di cultura letteraria e musicale francese (è nota, tra le altre cose, la passione del padre di Fabrizio per il compositore Eric Satie) sarebbe interessante poter dare una sbirciata a tutto il materiale "fornito" da
Giuseppe de André alla sua famiglia. Tralasciamo per forza di cose i libri, sebbene essi non esulino affatto dalla questione; ma ci spingeremmo troppo in là, oltre, naturalmente, ad avventurarci in un terreno minato come
possono esserlo delle ipotesi su una biblioteca che non si conosce. Viceversa, le ipotesi su una discoteca possono essere meno campate in aria, ed è a queste che ci limiteremo. Che cosa può essere entrato dalla Francia
nelle
orecchie del giovane De André, oltre naturalmente a Georges Brassens? La risposta non può venire che dalle sue canzoni.
6. A tale riguardo, è necessario prima dire qualche parola sulla canzone francese e sulla sua
storia. La canzone francese "moderna" non è, come si suol dire, roba recente. Le sue vere origini possono essere tranquillamente fatte risalire al periodo immediatamente dopo la Rivoluzione, quando appare una figura
come Pierre Jean de Béranger (1780-1857), il primo vero e grande
"chansonnier" che si orienta verso una canzone originale. Con Béranger siamo già pienamente di fronte a tutti quanti i caratteri distintivi delle
canzoni d'autore successive: impegno e satira sociale, gusto della metafora in chiave politica, libertarismo. Una sua canzone (forse la più nota), "Le roi d'Yvetot" (1813) è una satira antinapoleonica che, si
vocifera, l'Imperatore stesso conosceva e canticchiava in privato (segno evidente della sua non eccessiva "mordenza"); Béranger diviene comunque un personaggio famosissimo e conosce per primo il destino
"istituzionalizzante" di tanti suoi colleghi successivi. Alla sua morte, nel 1857 (quindi in pieno Secondo Impero) gli vengono tributati addirittura dei funerali di stato.
Impegno sociale e politico, libertarismo,
lotta: cose che ritroviamo praticamente in tutti i più grandi "chansonniers" del XIX e della prima parte del XX secolo, alcuni dei quali impegnati direttamente nell'esperienza della Comune di Parigi (1871),
come Jean-Baptiste Clément (1836-1903), l'autore de "Le temps des cerises" -il vero "inno" della Comune sebbene si tratti di una canzone d'amore nel quale fu vista una simbologia degli avvenimenti,
tipo le ciliegie che "stillano gocce di sangue" ecc.-, o Eugène Pottier (quest'ultimo più decisamente e direttamente impegnato politicamente, cui dobbiamo tra l'altro il testo originale dell'
"Intérnationale").
Parallelamente, si sviluppa anche una canzone che potremmo chiamare "di ambientazione", ad esempio con Aristide Bruant (1851-1925), il "cantante dalla sciarpa rossa"
immortalato in celeberrimi manifesti dal suo amico Toulouse-Lautrec, che canta una Parigi che ritroveremo in tanti altri autori che gli sono debitori pur nella loro diversità (echi bruantiani sono facilmente avvertibili, ad
esempio, in Charles Aznavour e in Léo Ferré), e "lancia" Montmartre e i suoi locali ancora sconosciuti persino ai parigini. E' ancora Bruant che rende popolare, nelle canzoni, l' "argot" dei
bassifondi e della mala, in questo rinnovando una tradizione poetica che risale addirittura a François Villon.
La tradizione libertaria e più decisamente anarchica della canzone d'autore francese è già pienamente
sviluppata in figure come Gaston Couté (morto nel 1911), un provinciale trapiantato a Montmartre che scrive molti dei suoi testi -fatto rarissimo nella canzone francese- nel suo ostico "patois" di campagna (il
"beaucéron") e, soprattutto, in Montehus (1872-1952), il primo vero "provocatore anarchico" della canzone francese (e di cui non a caso Léo Ferré e Renaud canteranno delle canzoni). L'autore de "La
butte rouge" e di "Gloire au dix-septième" è difensore in prima linea dei movimenti operai, si presenta in scena con una larga cintura rossa e diviene pacifista ad oltranza contro ogni guerra borghese. Ciò non
impedirà neppure a lui la tipica "istituzionalizzazione alla francese" al termine della sua vita; nel 1947 è una specie di "monumento" (cosa forse comprensibile nella Francia post-bellica) e lo Stato gli
conferisce addirittura la Legion d'Onore (che accetta).
8. E' nella canzone francese che nascono altri due "gusti" che sono ben presenti in Fabrizio de
André; quello per la rivalutazione e la valorizzazione del patrimonio popolare e quello per la "poesia in musica" (quest'ultimo, come vedremo, in misura assai minore dal punto di vista
"diretto", ma importantissimo da quello che potremmo definire ideale, o teorico).
Il patrimonio popolare francese (ballate, motivi ecc.) è ricchissimo, ma non è certo prerogativa di quel paese: in tutti i
paesi europei esso non soltanto è immenso, ma legato da "fili" più o meno avvertibili di influenze reciproche. Inoltre, esso obbedisce a delle comunanze strutturali assai notevoli, anche se non è lecito esagerare
[NOTA 5]. Ma la sua utilizzazione e riscoperta nella canzone d'autore moderna promana essenzialmente da tre soli paesi: la Francia, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti d'America. Dalla canzone popolare vengono riprese
storie "esemplari" concernenti l'infelicità dell'amore, l'ingiustizia e la crudeltà dei potenti, la rassegnazione di fronte al destino umano, le vicende dei "ribelli" (banditi, fuorilegge ecc.),
la cui presenza massiccia nella canzone d'autore è osservabile anche da un occhio non particolarmente esperto.
Limitandoci alla Francia, le più note canzoni popolari (ed anche alcune meno note) vengono riproposte da
tutti i principali chansonniers a partire dal XIX secolo; ed è una cosa del tutto logica, naturale. La Blanche Biche, la Complainte de Mandrin, il Roi fait battre tambour, Aux marches du palais, le Prisons de Nantes e tante
altre fanno parte stabile del repertorio generale, a partire da Aristide Bruant. Non solo: esse influenzano, provenendo dal "popolo" (e qui, probabilmente, si avvertono certe teorie sul "popolo compositore"
o "poeta" [Dichtervolk] che, in ultima analisi, traggono origine dal Romanticismo fin dai suoi primi vagiti, ad esempio le Lyrical Ballads di Wordsworth e Coleridge), i processi compositivi, sia testuali che musicali.
Ed è qui, al di là delle sue stesse dichiarazioni di "atemporalità" e di "non poeticità del mondo moderno", che va ricercata la vera spiegazione di quello che, nel saggio precedente, abbiamo chiamato
"medioevo brassensiano", e che tanta parte ha avuto nell'inizio e nello sviluppo della poetica (e della musica) di Fabrizio de André. E si tratta di una "riscoperta" e di una rivalutazione che non si
esauriranno certo in questo; ad un certo punto assumeranno, specialmente negli Stati Uniti degli anni '60 e '70, un valore decisamente politico e "rivoluzionario". Woodstock viene da molto, molto lontano nel
tempo e nello spazo; quando Joan Baez vi canta Matty Groves (ovvero la versione americana di Lady Barnard and the Little Musgrave, Child #81, una ballata cinque-seicentesca conservataci in un foglio volante del 1658), però, la
sua riproposta è adattata all'interpretazione che ne dà la sensibilità contemporanea e di un certo particolare periodo (l'amore distrutto dall'arroganza del potente), ben lontana da quella dell'originale (si
trattava, anzi, di una ballata dai chiari intenti moraleggianti e di ammonimento contro l'adulterio). E' un procedimento, questo, di cui occorre sempre tenere conto anche per la componente "popolare" della
canzone d'autore; le "antiche istorie" vengono fatte ascoltare o rifabbricate per trarne "insegnamenti" e "messaggi" molto diversi da quelli di qualche secolo fa.
9. La canzone popolare,
morente o addirittura estinta nel XX secolo, viene solo apparentemente riportata a nuova vita; essa passa nel repertorio di artisti-poeti che ne traggono si' nuova "linfa", ma che sono lontani anni luce da uno
spirito autenticamente "popolare" (e ciò è logico: tornare allo spirito "popolare" alla base dei veri componimenti del genere equivarrebbe alla riformazione di una società rurale pre-industriale!). La loro
definizione di "cantastorie" è suggestiva, ma non ha nessuna ragion d'essere. Ciononostante, i moderni cantautori di qualsiasi paese si ropongono coscientemente come portatori di un'arte "popolare";
ed è questo il necessario punto di partenza per ogni analisi corretta e seria, slegata da ogni luogo comune e da ogni facile etichetta. La canzone d'autore va studiata come qualsiasi altra espressione letteraria in sé, e
non per attribuirle ruoli che non ha o, peggio, per tentare di "elevarla" in una categorizzazione sbagliata quanto artificiosa.
10. Prima di Fabrizio de André, tutto ciò non esisteva nella canzone
italiana.
Il patrimonio popolare italiano, va da sé, è altrettanto ricco e variegato di quello francese o di ogni altro paese; ma non aveva avuto alcun riflesso, o riflessi assai scarsi e sporadici, sulla canzone italiana (neppure su
quella napoletana tradizionale). E' Fabrizio de André che, basandosi su Georges Brassens e sulla canzone d'autore francese "in toto", introduce nella canzone italiana motivi, atmosfere, storie e
"morali" dell'autentica canzone popolare, facendone uno strumento di coscienza e, beninteso, di lotta. Tutto questo prima dell'insorgere della canzone più direttamente "politica" o militante. La sua
prima produzione è un'immensa ballata, ed è questo suo rifarsi a radici popolari comuni, assenti precedentemente, che è il suo primo contributo davvero decisivo al rinnovamento della canzone italiana ed al suo allineamento
agli standard -qualitativi e ideali- francesi e di altri paesi. A mio parere, e so di non esagerare, la canzone d'autore italiana può veramente essere fatta cominciare con Fabrizio de André, che ne resta fino alla fine il
rappresentante più alto; ed è questo che deve essere messo in luce ed analizzato, prima che Fabrizio de André si trasformi in un "vuoto mito di terza mano".
Di Brassens abbiamo già parlato
abbondantemente; vediamo adesso in quali altri modi la canzone d'autore francese influenza l'opera di De André ed il suo percorso. Canzone popolare, abbiamo detto; e se ne trovano due esempi diretti, "Il re fa
rullare i tamburi" (la versione italiana, discretamente fedele, di Le roi a fait battre tambour) e "Fila la lana", seppure in quest'ultimo caso di tratti di una canzone falsamente popolare, composta e cantata
nel 1949 da Jacques Douai [NOTA 6]. Le traduzioni da Brassens, Morire per delle idee a parte, si inseriscono tutte in quest'ottica, Gorilla compreso; particolarmente indicativa, a questo riguardo, è "Delitto di
paese" [L'assassinat]. De André riproduce fedelmente ogni tipo di atmosfera e di stilemi della canzone francese, "popolari" o meno, trasponendoli in lingua italiana e facilitato, indubbiamente,
dall'esistenza anche da noi di una certa cultura "paesana" con figure non troppo dissimili da quelle francesi; viene da pensare che vi trasponga anche il "personaggio-Dio", che attraversa tutta una sua
evoluzione fino ad arrivare all'invito a "farsi i fatti suoi" nella Canzone del padre; vi traspone anche un po' di "maledettismo" visibile in certo Villon da canzoni, "diretto" o
"indiretto" (e Villon ha inoltre l'atout di essere medievale sul serio.). Tutto questo lo si ritrova in aspetti forse impensati. Ad esempio, se da un lato la Ballata degli impiccati (facente per di più parte di un
album che segna il passaggio da una fase ad un'altra) di De André è un testo autonomo rispetto a quello villoniano (musicato e cantato da Brassens), nel quale, pur mantenendo lo stesso titolo (viene da pensare quasi per
contrapposizione), la cupa rassegnazione degli impiccati che invitano a pregare Dio perché "les vueylle absouldre" viene anzi rovesciata in rabbia, bestemmie e rancore niente affatto celato (cose del tutto ignote al
bonhomme Brassens), d'altro lato De André, violentando un po' la realtà storico-letteraria ma adeguandosi in pieno ad una certa visione sempre diffusa a livello superficiale, trova il suo maudit nostrano in Cecco
Angiolieri musicandone e cantandone il celeberrimo "S'i' fosse foco".
Fabrizio de André fa una canzone su una ragazzina che "gioca all'amore scherzando con gli occhi ed il cuore"? Non solo
ella somiglia tanto ad una certa immagine delle "francesine", ma si chiama pure "Barbara", come la principale cantante "torbida" francese. Insomma, Fabrizio de André prende davvero dalla canzone
francese, e dalla Francia in genere, tutto ciò che c'è da prendere e, con essa, rinnova (anzi, fonda) tutta la canzone d'autore italiana contemporanea (coadiuvato, certo, da tutta la "scuola genovese", che
però non ha l'ampiezza o la capacità per spingersi fino alle vette deandreiane); ma, nel riprendere, nel trasporre, nel copiare e nell'ispirarsi fin nei più minuti dettagli, riesce, comme par miracle, par enchantement,
ad elaborare e filtrare il tutto attraverso la sua sensibilità
ed il suo genio. Perché quel che traspare da De André è sempre e solo De André, anche se a "farlo" hanno contribuito mille e mill'altre
cose.
11. Per quanto riguarda la "poesia in musica, ovvero il mettere in musica ed il cantare testi di poeti "riconosciuti" (aborro questo termine, ma non ne trovo purtroppo di migliori), questa è una
tradizione assolutamente esclusiva della canzone francese. Non esiste altrove, e se è poi esistita, da noi o altrove, lo si deve all'influenza ed all'esempio della canzone francese. In Francia vengono tranquillamente
musicati e cantati tutti i principali poeti del passato e contemporanei, dal già più volte citato François Villon a Victor Hugo, da Alphonse de Lamartine a Pierre Corneille, da Paul Fort a Paul Verlaine, da Théodore de Banville
a Francis Jammes.e lista potrebbe continuare, e sarebbe lunga. In questo si distingue, va detto, Georges Brassens, che non ha "rivali" e che ha addirittura contribuito a scuotere dall'oblio un paio di poeti,
Antoine Pol e Jean Richepin, che senza le sue canzoni vi sarebbero probabilmente rimasti. Ma non possiamo non nominare anche il Louis Aragon di Jean Ferrat (e di Brassens, anche lui) e il Charles Baudelaire di Léo Ferré (lui
stesso, e decisamente, "baudelairiano"). Non solo; in Francia i poeti "veri" non disdegnano affatto la canzone, non la considerano affatto una "forma poetica minore" e vi si dedicano talora in modo
del tutto naturale ed accettato. A tale riguardo, il caso più ovvio e "clamoroso" è quello di Jacques Prévert, il quale si "dota" persino di un compositore di fiducia (Pierre Kosma) passando poi le sue
canzoni ad interpreti vari che alimentano il mito della "Rive Gauche" (Juliette Gréco, Catherine Sauvage -che fu per un breve periodo una delle non poche amanti di Jacques Brel-, Barbara, persino Boris Vian). Boris
Vian è scrittore e poeta "riconosciuto", ma è anche musicista, scrive canzoni per altri e si canta le proprie.
A completare la cosa, nella canzone francese si ritrovano frequentemente gli stessi schemi metrici
della grande poesia; tipico l'uso dell'alessandrino, che, ad esempio, un Brassens maneggia alla perfezione stanti anche i suoi precisi ed accurati studi di versificazione. E', lo si capisce, una cosa difficilmente
esportabile e, probabilmente, del tutto interna al "genio" della lingua francese, alla sua consistenza ritmica ed alla sua tradizione poetica. Inoltre, nella grande poesia di varie epoche i cantautori hanno trovato
del materiale perfetto per portare avanti ed esemplificare i loro discorsi; per intendersi, Banville, Verlaine, Villon ed anche certe cose di Hugo possono tranquillamente essere organici ad una canzone, idealmente e
linguisticamente; ne hanno, senza che, per questo, ne risultino affatto "sminuite", il ritmo e l'andamento; in certi casi sembra quasi che, ad esempio, una "Colombine" o "Les yeux d'Elsa"
non aspettassero altro che qualcuno che le cantasse. Ciò non potrebbe verificarsi, ad esempio, per un Leopardi, un Carducci o un Montale (per motivi svariati ed assai diversi tra loro). Nella canzone d'autore italiana il
verso "principe", l'endecasillabo, non ha molta cittadinanza; ed il corrispondente nostrano dell'alessandrino, il cosiddetto "martelliano", ha anch'esso rari esempi (ma uno è La città vecchia di
De André).
12. Ciononostante, qualcosa "passa" in De André e nella canzone d'autore italiana. L'unico caso di poesia messa in musica direttamente da Fabrizio de André ed inserita in un album è la già
nominata S'i' fosse foco di Cecco Angiolieri (intendo qui un componimento preesistente in lingua italiana, e non una traduzione). Piuttosto, con De André si assiste ad un nuovo rapporto, ad una "presa di
coscienza" possibile della compatibilità ad ogni livello tra canzone di fruizione "popolare" e la poesia; cose che sfociano, ad esempio, nella riscrittura dell' Antologia di Spoon River (della quale, però,
parleremo più a lungo nel prossimo saggio dedicato a "De André e l'America"). In Italia abbiamo comunque un poeta che scrive qualche canzone (non contando Italo Calvino): Franco Fortini. Che piaccia o meno,
c'è Angelo Branduardi (che, forse, quantitativamente è colui che più ricorre a tale cosa, da italiani [Lorenzo il Magnifico] e da stranieri [William Butler Yeats, Chrétien de Troyes, i provenzali]). Ma è con De André che
tutto comincia.
(Fine)
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[NOTA 1] Per il concetto di "suggestione" nell'analisi letteraria mi rifaccio senz'alcuna remora alla "tradizione" pre-moderna o pre-strutturalista e, più personalmente,
alla mia vocazione di eclettico. E', d'altronde, una cosa che fa capolino nell'opera di diversi critici, come ad esempio nell'esegesi montaliana di Angelo Marchese (tanto per parlare di un altro genovese
recentemente scomparso).
[NOTA 2] In Francia i "cantautori" sono stati a lungo chiamati
"troubadours". Per la "canzone d'autore" si preferisce adesso la
denominazione di
"chanson à texte", che mette giustamente l'accento
sul ruolo centrale del testo senza per questo sminuire l'importanza
della musica. Una canzone è e resta tale in quanto ha una musica e può essere
cantata.
[NOTA 3] Lungi da me, però, attribuire a codesto "primo periodo" un
carattere monolitico. Mi sembra d'altronde che ciò appaia
sufficientemente chiaro da quel che ho detto nella prima parte su
"De
André, Brassens, anarchismo".
[NOTA 4] Luigi Viva, "Non per un dio ma nemmeno per gioco - Vita di
Fabrizio de André", Milano, Feltrinelli, 2000.
[NOTA 5] Si veda a tale riguardo il saggio iniziale preposto alle mie "Child Ballads: Ballate popolari angloscozzesi",
http://utenti.lycos.it/Balladven/index/html
[NOTA 6] Si veda la mia mail "File la laine / Fila la lana: storia di un
falso" del 15 aprile
scorso.
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R.Vent., 59860 Bruay sur l'Escaut [France, Nord]